sabato 20 dicembre 2008

Domenica a Palermo

Domenica a Palermo è giorno di mercato. Ruggero accompagna il padre a comprare pesce e frutta. Sempre di domenica. E poi la città è come pacificata e stremata dalla movida della notte prima.

Domenica in giro in città. Andiamo al mercato del Capo e poi alla Zisa. Porta Carini ci immette in un altro mondo (
http://www.ilportoritrovato.net/html/passeggio1.html). Gianfranco continua a fermare gente per chiedere la strada. Anche quando non è necessario. Gli piace da morire quello che succede. Mi dice piano: “Sono anche più gentili che a Napoli”. E poi si avvicina a qualcuno e chiede: “Di qui vado bene per la Zisa?” E subito ci raggiunge almeno anche un altro, un po’ più vecchio in genere, che ti dice per filo e per segno la strada da fare. E quanto è bella. E quanto ci vuole. E dove devi girare. E come altro ci puoi arrivare. Insomma, girato l’angolo Gianfranco chiede un’altra volta la strada. Per parlare con la gente. “Siccome che c’è”.

La Zisa (http://it.wikipedia.org/wiki/La_Zisa ) appare nella sua forza primigenia. Al-Azīza, la splendida, spicca nella spianata. E te la riesci ad immaginare in un giardino lussureggiante tra bacini di acque fresche. In realtà ora intorno alla spianata preme la città tentacolare. Ma è così ovunque nel mondo. Mi ricordo la delusione la prima volta che misi piede a Giza. In realtà le piramidi non sono lì tranquille con intorno il nulla. Su una delle sette meraviglie del mondo preme un quartiere come Centocelle a Roma. Una periferia triste e brutta. E la fatica per fare una foto evitando il balcone della signora che stende il bucato.

Cassata e cannoli. Preferisco la prima. E poi io mangio i canditi con forchetta e coltello, come fossero un cibo come un altro. Mia nonna faceva i canditi e penso mia madre e mia sorella abbiano ancora una piccola produzione. “Signo’, non se preoccupasse non s’ammaccano. La mettiamo qua la borsa”. Sull’aereo del ritorno il giovane steward autoctono riesce finalmente a convincere la signora a separarsi anche solo per 50 minuti dalla enorme sporta che abbraccia come un figlio sulle ginocchia. Non voleva mollarla. La ragione? Cassata e cannoli da traghettare in continente da curare perché arrivino perfetti.

Ancora due libri letti di recente sulla Sicilia. “Un Sultano a Palermo” di Tariq Ali, ambientato nella Sicilia mitica della convivenza arabi-normanni. Avrebbe bisogno di una sistemata nella storia, ma se non si è troppo severi ci sono margini di divertimento. E infine “Una casa in Sicilia” di Daphne Phelps, una romantica donna inglese racconta la sua casa a Taormina dove arriva nel 1948 per liquidare la villa ereditata dallo zio e dove invece decide di restare per il resto dei suoi giorni. Bozzetti italiani e storie di questa casa che si trasforma in un albergo di charme. C’è qualcosa di non detto che lascia una traccia indefinibile. Secondo Gianfranco lei forse era una spia. In realtà scopro che è un piccolo mito della cultura gay (
http://www.culturagay.it/cg/recensione.php?id=10213). Ma Daphne Phelps di tutto questo non parla mai.

venerdì 19 dicembre 2008

13 dicembre. Santa Lucia a Palermo.

“Dicci che si pigliasse ‘sti pìccioli”. Ruggero parla a Sara, ma sono io che mi devo pigliare ‘sti pìccioli. Ossia cinque euro in monete che ho posato sul tavolo davanti a Sara perché lei li restituisca a Ruggero. A cena a Palermo sto mangiando una caponata. Come un fulmine entra nel ristorante Gianfranco. Ha il taxi fuori e gli servono cinque euro spiccioli. Il taxista, come tutti i taxisti del mondo, non ha da cambiare. E Ruggero al volo gli passa i soldi. Scopro dopo aver armeggiato nella borsa di averli anche io e provo a restituirglieli. Ma sono a Palermo, inutile insistere. Come dice Gianfranco in Sicilia l’ospitalità è quasi imbarazzante.

Mi piace la caponata. Quel sapore agrodolce di oriente ed occidente insieme. E anche la pasta al forno alla moda di Palermo. “Preferisce la lasagna o quella con gli anelletti?” Vedo che gli autoctoni si muovono sugli anelletti e li scelgo anche io. Domina di fondo il sapore di cannella e di chiodi di garofano. Un’ospitalità imbarazzante. E camurrie. Esiste una movida palermitana che mai avrei immaginato.

Ma vado in ordine. Arrivo con la piccola e Gianfranco che ha da fare a Palermo. Chiamo la mia amica Sara, che vedo più o meno una volta l’anno per un aperitivo a Roma. In un’altra era, forse 25 anni fa, penso mi sia capitato di vederla molto più spesso. Era amica e collega di Norma. Devo averla conosciuta a Parigi. In questi 25 anni sono successe un sacco di cose. Ha conosciuto Ruggero – quello dei pìccioli – ed ha avuto due magnifiche figlie. Due ragazze ormai, ben più grandi della piccola. Insomma sono a Palermo, la chiamo ed entro nel circuito della sua vita. Sara lavora. E’ venerdì e mi invita a pranzo, ma non al bar sotto l’ufficio come potrei fare io. A casa. E non in cucina in piedi. Ma a tavola, che quando arrivo è già apparecchiata con tovaglia, 2 bicchieri per commensale, forchette, coltelli, posate da frutta e dolce. La piccola ed io restiamo a pranzo. Passeremo con Sara e la sua famiglia due giorni. La sera ceniamo da lei e pranziamo anche il giorno dopo. Poi andiamo a Mondello, con sua sorella Tiziana e il nipote più o meno dell’età della piccola. E anche a cena insieme, questa volta fuori in un posto magnifico. Provo a dire che vorremmo offrire noi. Mi chiariscono che è ridicolo anche solo pensarci. Civiltà e ospitalità del sud. Anche se sono meno spinti e più contenuti, “più studiati e viaggiati”, ma sempre siciliani sono.

Palermo, 13 dicembre Santa Lucia. Non si mangia pane, niente con farina di grano. Ma le arancine di riso – che in Sicilia sono femminili - sono buonissime. E poi c’è la cuccìa, un dolce con ricotta e grano che si fa per Santa Lucia. Il grano è lo stesso che si usa per la pastiera a Napoli.

Santa Lucia di sabato e chiamo Norma che Sara vuole salutare. “Insomma tu capisci, qui mangiano a casa anche durante la settimana, con i figli. La tavola è apparecchiata di tutto punto. Poi si riposano un po’ e tornano al lavoro”. Norma dall’altra parte: “Civiltà del sud. Invece io sono qui a Bruxelles. Sabato ed anche oggi lavoro. Ho preso dal frigo dell’ufficio una busta di bresaola, l’ho aperta, ci ho versato qualche goccia di limone ed ho continuato a lavorare mangiando”.

A Mondello Gianfranco ed io passeggiamo sulla spiaggia. Il mare è trasparente. Le palme di Sicilia mi commuovono. Sono state decimate da questa epidemia venuta dall’Africa, il punteruolo rosso. Nel pomeriggio a casa di Tiziana con Sara, mentre i bambini giocano, beviamo te o camomilla e parliamo tra noi. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda ed è veramente piacevole stare insieme.

Su libri e Sicilia ho solo l’imbarazzo della scelta. Camilleri non può mancare, perché come fai a non essere un po’ innamorata di Montalbano. Devo dire che anche il suo vice Mimì non mi dispiace per niente. Una vera scoperta è stato Pietrangelo Buttafuoco e “Le uova del drago”. Una storia folle e fascia, ma da leggere. E poi sono veramente persa di Gesualdo Bufalino e della sua “Diceria dell’untore”.

giovedì 11 dicembre 2008

Domenica a Roma. Con un paio di corvée di lavoro.

"Gianfranco ho proprio bisogno di un passaggio. Puoi scendere e prendere la macchina? Sono stata più di mezz'ora giù ad aspettare la metro. Niente. Deve essere successo qualcosa. Un disastro. Dovrei essere tra 15 minuti all'Hotel Hassler. Ma come posso arrivarci?" Sono praticamente attaccata al citofono del palazzo e parlo troppo forte. Gianfranco è su a casa e spero sinceramente venga preso da pietà per questa povera donna che lo implora di darle un passaggio. Domenica a Roma. Un paio di impegni di lavoro. Tutti i problemi di sempre moltiplicati dal giorno di festa. La metro ha qualche problema. Trovare un taxi nemmeno a parlarne. E io tra poco devo essere all'Hassler per una colazione di lavoro.

Gianfranco scende con la piccola. In macchina verso il centro storico. Sembra si possa entrare ma a Piazza Barberini pensiamo non sia possibile arrivare con un'auto privata fin sopra Trinità dei Monti per raggiungere lo storico Hotel Hassler. Saluto in fretta e scappo. Corro sulla strada. Un paio di negozianti romani languidamente addossati al muro a prendere il sole mi consigliano di rallentare: "Dai che glia fai...t'aspetteno nun te preoccupa'..". Sto per entrare all'Hassler e sento dietro di me la voce di Gianfranco. Affacciato al finestrino della sua macchina mi dice: "Sono riuscito a trovare un modo per arrivare fin qui. Bene vedo che comunque anche tu ci sei". E' un mago nel raggiungere luoghi inaccessibili. Ed anche nel prendere multe inarrivabili. D'altra parte del suo tesoretto di 20 punti - patente ne ha ormai solo 2. La prossima volta che dovessero fermarci sono pronta a recitare una scena madre per evitare gli ritirino la patente ed io e la piccola si torni a casa a piedi.

L'Hassler è un posto polveroso. Ma la toilette vicino al bar vale l'impresa. Mosaico chiaro lucido, toni del marrone bruciato opaco e soprattutto il lavandino spendido. Un cristallo orizzontale, nient'altro. Apri il rubinetto e fai un saltino indietro certo che l'acqua ti bagnerà. Invece il cristallo ha la giusta pendenza e l'acqua non ti inonda ma si rifugia subito nelle retrovie. Per il resto nulla da segnalare. Marmi pesanti, poltrone anche peggiori, tappeti su tappeti. Però si mangia dignitosamente. Un posto dove può regnare sovrana la Maria Angiolillo e il suo manipolo.

Mentre sono all'Hassler Gianfranco e la piccola hanno deciso di rompere un tabu e sono da McDonald. Troverò a casa la sera i segni inequivocabili di questo passaggio. Un paio di pupazzetti, tutto pulito in cucina e il senso di colpa di Gianfranco di non esser riuscito a evitare l'hamburger.

Dopo la colazione all'Hassler devo andare ad una trasmissione nazional-popolare del pomeriggio della domenica. Dietro i riflettori le ballerine mezze nude scaldano i muscoli. Le anchorwoman usano sandali rossi con tacchi di 15 centimetri senza calze. Poi anche l'ultima corvée finisce. Mi rifugio a casa. Mi aspetta Enrico Grazzini "L'economia della conoscenza oltre il capitalismo". Pare che andiamo verso "una nuova cultura, nuove iniziative democratiche e un'economia produttiva fondata sulla collaborazione e la comunicazione".

Vienna, metà ottobre. A pranzo da Tante Inge.

È ancora molto bella. Gli anni hanno ancora chiarito i suoi occhi. Ha un twin set azzurro polvere che rende più intenso il celeste del suo sguardo. Un piccolo bracciale d’oro al polso rende evidente che si è vestita con maggiora cura per noi. Tante Inge è stata sposata per una vita con uno dei più cari cugini viennesi di mio padre. Ha certamente più di 80 anni. Lo chiederò ai miei genitori quando saremo usciti. Non si parla di età con una signora. Così bella ancora, per giunta.

Metà ottobre e a Vienna fa freddo. Veniamo da Roma dove sono ancora 25 gradi. Mia madre ha abiti più sud tirolesi di lei. Cappello con piuma regolamentare. Mio padre è l’unico che parla con ognuno nella lingua madre. La piccola saltella e si capisce che non resisterà a lungo nel chiuso dell’appartamento. La tavola è apparecchiata per 9. Siamo noi 5: mia madre, mio padre, Gianfranco, la piccola ed io. Poi la nostra padrona di casa, Tante Inge appunto. Infine tutti quelli che lei è riuscita a raccogliere per questo pranzo di un’antica famiglia europea. Andreas e Christiane, ossia uno dei figli di Inge, cugino per me di grado terzo – forse più largo ma solo mio padre può dirlo con certezza – e sua moglie. E poi c’è l’ultimo figlio di Christof, ossia il più giovane dei nipoti di Inge. Stessa generazione della piccola. Avrà una ventina d’anni e mi parla in spagnolo. Si capisce che il castigliano è per lui la chiave per entrare nei mondi latini. Oltre noi in casa la gentile fantesca filippina di un’amica di Inge venuta a dare una mano per l’evento.

Il figlio di Christof mi versa del vermouth. Parliamo in inglese perché facciamo prima, ma Christiane interviene in italiano e anche tante Inge ci prova, ha appena cominciato un nuovo corso all’università della terza età. Mio padre parla in tedesco con Andreas. Il mix è tremendo. Papà è perfettamente a suo agio. Gianfranco fa un po’ fatica a star dietro a tutte queste parole in italiano, tedesco, spagnolo e inglese.

Ci mettiamo a tavola. Tante Inge ha preparato una zuppa tirolese. Buona e particolare. Poi per la gioia della piccola, wienerschnitzler, ossia cotolette alla milanese, che qui sono alla viennese. Contorni. Andreas non riesce proprio a sedersi. Versa il vino, prende una foto, va a cercare un vecchio ritratto che mia madre da tanto voleva rivedere. Anche la piccola dopo un po’ non riesce più a stare seduta. Mio padre tiene banco in tedesco, raccontando di quando non tanti anni fa ha messo piede per la prima volta nella casa d’origine in Ungheria. Una buona famiglia austro-ungarica ha sempre una casa antica che non è stata vista per più di 50 anni. In Ungheria. Christiane mi è vicino e già questo è un regalo. Sorride guardando la piccola: ”Anche Jakob non riusciva mai a stare fermo. Ora è così bravo che quasi non riesco a crederci”. “E’ a Londra e ormai è uno storico” le chiedo. E lei: “Sì, ma era proprio come la piccola. Impossibile tenerlo fermo”.

Gianfranco parla in italiano. È qui perché un suo film è alla viennale. Andreas e Christiane sono venuti alla prima. Tante Inge no, troppo pesante per lei. Ma ha seguito tutto il dibattito su questo lavoro sulla nascita delle BR a Reggio Emilia. Chiede in un mix di italiano, tedesco e inglese: “E queste persone sono state in carcere?” “Sì – dice Gianfranco – uno degli intervistati si è fatto vent’anni”. Tante Inge è serafica: “Ricordo di aver conosciuto anche io un terrorista tanti anni fa. Un terrorista del Tirolo. Si sarà fatto 30 anni di carcere”.

Una famiglia europea da sempre. Una casa semplice, confortevolmente borghese. Il caos di mischiare le lingue. Una bambina che non ce la fa più a stare a tavola e come i cani deve uscire per correre all’aria aperta. Mio padre ormai parla solo tedesco. Tante Inge prova a non muoversi dall’italiano. Ha un nuovo professore molto gentile. “Beh, devi chiedergli di metterti in condizione di venire in Italia a primavera” le dico. E Inge: “L’ultima volta che sono venuta in Italia c’era ancora Friedel”. Mio padre mi chiarirà che Friedel – il marito compagno di una vita di Inge – è morto a gennaio dello scorso anno. Faceva un freddo cane. Mio padre è venuto a Vienna per l’ultimo saluto. Un’occasione triste. Ben diversa dalla gioia di stare insieme. E anche di poter presentare a tutti la piccola, la pestifera nipotina bionda, alta e molto familiare. Per tutti.

Sto leggendo “Sulle mie tracce” di Gregor von Rezzori. E’ come vedere scorrere pezzi di storie che sarebbero potuti essere della mia famiglia. Lui che nasce in un calesse mentre la madre fa ritorno alla casa avita. La Vienna degli anni ’20 e ’30. Bucarest e le province dell’impero. Ricchezza che si trasforma in un pugno di anni in miseria. Guerre e fame, amori e sogni. Le porcellane della nonna vendute al monte dei pegni. La forza di ricominciare quando tutto sembra perduto.

sabato 6 dicembre 2008

Metto mano al guardaroba. Mi libero del superfluo. Per accumularne altro. Ancora più vecchio.

“Devo comprare qualcosa di nuovo. I vestiti mi durano 20 anni e poi alla fine sono sempre gli stessi. Magari la vita un po’ più stretta o le spalle meno strutturate, ma alla fine da un certo momento in poi ho cominciato a mettere sempre le stesse cose”. Jackie traduce nel linguaggio della moda: “Insomma hai consolidato il tuo stile”. Sono perplessa. “Sarà. Certo in inverno uso soltanto scarpe maschili e in estate infradito. Anche quando non andava, ho sempre usato molto il viola. Sai è un po’ stata una reazione a Gianfranco, che lo considera abbastanza disdicevole”. Jackie sorride: “Ma lo sai com’è fatto. Continua a pensare che il viola porti iella”. “Beh ti dirò, una volta mi ha chiesto di non mettere un abito da sera comprato la mattina proprio per la serata. Non era viola, giuro. Ma secondo lui aveva un retrogusto che si sarebbe potuto avvicinare al prugna. Certo era una cena di attori di teatro. Sensibilità quanto mai spiccata per il viola. Forse anche più di Gianfranco. Non misi l’abito, ma per il resto ho sempre usato ed abusato del viola”.

Jackie tenta di riportarmi al concreto: “Che ti serve? Soliti tailleur pantaloni o qualcosa di più divertente?” Ed io: “Ma non lo so. Fai tu. Qualcosa da usare normalmente”. Jackie non è una stilista e non ha una boutique. È un analista finanziario, il miglior analista di bilanci che conosca. Ed è il mio personal shopper. Tanto io detesto andare per negozi – non dirò mai fare shopping perché fa schifo – tanto al contrario lei ha la mappa completa di tutto quello che c’è in circolazione. A Roma e Milano, diciamo. Perché vive nei negozi, quando non lavora o dorme. E lei lavora quasi sempre. Ogni tanto dorme. Poi mi conosce davvero, sa che cosa è adatto al mio spirito oltre che al mio corpo. Per chi le è più vicino è in grado di dare uno sguardo a ciò che è in vendita e di decidere cosa può andare bene. Quando ho bisogno di qualcosa, alzo il telefono, la sento 20 minuti e lei mi dà il quadro aggiornato di dove andare, quando ed anche più o meno di quanto spendere. Fantastico. Non potrei farne a meno. Ogni tanto glielo ripeto “Dovresti trasformare questo talento in un lavoro”. Ma lei nicchia. “E’ qualcosa che riservo solo agli amici. E poi che vuoi che ne sappia di cosa può essere adatto a chi non conosco?”

Insomma metto mano al guardaroba. Se un vestito ti dura 20 anni a un certo punto ti devi liberare del superfluo. Giusto per metterti nella condizione di accumularne altro. Qualcosa di più nuovo e un po’ più adatto al tempo trascorso su di te. Poi le cose sono più o meno le stesse. Così un sabato e una domenica ho smontato tutto. Ho salutato con affetto abiti che mi hanno accompagnato ogni giorno e che da alcuni anni non metto più. Decidere di lasciare alcuni vestiti è stato triste, ma comunque la decisione era presa. Ho messo tutto in una grande valigia e ho cominciato una ricerca su che farne. E ho scoperto un mondo. Siti per scambiarsi le cose – tipo
www.scambiamoci.it il portale del baratto on line, che ha ben 32 categorie e la prima è abbigliamento – mercatini dell’usato, che a Roma possono impegnare anche tutti i week end. Anche senza www.ebay.it, su internet non si fa altro che provare a vendere. Ho fatto anche una piccola ricerca tra chi mi è capitato a tiro. Si organizzano incontri tra amiche e tra colleghe per scambiarsi o vendersi abiti. “Jackie, ma tu che compri vestiti 10 volte più di me, che ne fai?” Mi risponde tranquilla: “Ma sai non mi sono mai posta il problema. Le cose migliori le do a mia sorella, il resto lo porto giù al paese”. E penso alla fortuna delle ragazze del posto d’origine di Jackie cui può toccare in sorte una giacca di Etro di una vera esperta di moda.

Mi guardo in giro, chiedo, continuo a dirmi che devo prendere una decisione. Poi una sera mia madre mi telefona per dirmi che con mio padre hanno in programma un viaggio con parecchi incontri di rappresentanza. La domanda è chiara: “Hai qualcosa da prestarmi?” Va da sé che mia madre ha un guardaroba di cose stratificate in ere precedenti. Ma qualcosa di diverso fa sempre comodo. E piacere. “Ma sì dai, ho messo mano al guardaroba, ho una valigia di cose veramente belle, perché non vieni a provarle?” Tempo tre ore e la camera da letto si trasforma in una sala prove. Le va tutto benissimo ed è molto adatto a lei. I tailleur di taglio maschile le donano e i capelli bianchi sono molto divertenti con abiti da ufficio. Prova una giacca di Guy Mattiolo. Le sta benissimo, ma la piccola non resiste “Nonna mi è sempre piaciuta tanto”. E lei tranquilla: “Ma cara la metterò un po’ e poi la porterai tu”. Insomma regalo tutti i vestiti a mia madre. Ma lei ha già deciso li darà a mia figlia. Tra 10 anni.

Ci penso e ci ripenso. C’è qualcosa di conosciuto in questo darsi i propri vestiti usati. Mia madre ha conservato per molti anni abitini che ho messo quando ero bambina. Non sono andati persi. La piccola li ha usati. Poi insieme mia madre e mia figlia mi hanno convinto a conservare queste cose per la figlia della piccola. Quando arriverà avrà un sacco di cose carine. Ma non è l’unico caso. Abbiamo un giro di vestiti pazzesco. Quelli della piccola, che non dovranno arrivare a sua figlia, finiscono alla cuginetta. Quelli di Gianfranco ad un amico. Quelli dei figli di mia sorella arrivano a casa mia. L’uscita di scena dalle nostre case è Elisabetta, la tata della piccola, quando si decide che qualcosa ha proprio fatto il suo tempo le viene consegnato e lei provvede a distribuirlo sulla base della sua saggezza.

Insomma mi libero del superfluo. Poi mia sorella mi scrive una mail: “La madre di Mary è purtroppo finita. Oltre a delle mantelle, mi sono state regalate alcune bellissime borse di coccodrillo. Ho deciso di dartene una. Ti do quella nera e io mi tengo quella a bauletto (che ho dato a mamma per una piccola revisione). Anche quella che do a te andrebbe un po' revisionata e magari si potrebbe far aggiungere una catenella per metterla sulla spalla. Sono bellissime e tutto sommato in buone condizioni”. Le rispondo prima che mi venga recapitata una di queste meraviglie: “Grazie, ma io poi quando la uso. Tienila tu, per me non credo sia adatta. Invece mi potresti regalare una delle mantelle, che certamente è più vicina al mio stile di vita. che dici?” Insomma mi libero del superfluo per accumularne altro. Ancora più vecchio.

E penso al libro da mettere in questa piccola storia. Cammino nel corridoio e l’occhio mi cade su “Scuorno”, ossia vergogna, di Francesco Durante. E decido di metterlo qui. Perché è un bel libro, perché ci sono un milione di connessioni ed anche perché sono mesi che Gianfranco ed io cerchiamo disperatamente “Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti 1776-1880” proprio di Durante. Magari metterlo qui ci porta bene e qualcuno che vuole liberarsene mi scrive per passarlo appresso e fargli fare un giro come accade agli abiti usati tra noi donne della mia famiglia.