sabato 20 dicembre 2008

Domenica a Palermo

Domenica a Palermo è giorno di mercato. Ruggero accompagna il padre a comprare pesce e frutta. Sempre di domenica. E poi la città è come pacificata e stremata dalla movida della notte prima.

Domenica in giro in città. Andiamo al mercato del Capo e poi alla Zisa. Porta Carini ci immette in un altro mondo (
http://www.ilportoritrovato.net/html/passeggio1.html). Gianfranco continua a fermare gente per chiedere la strada. Anche quando non è necessario. Gli piace da morire quello che succede. Mi dice piano: “Sono anche più gentili che a Napoli”. E poi si avvicina a qualcuno e chiede: “Di qui vado bene per la Zisa?” E subito ci raggiunge almeno anche un altro, un po’ più vecchio in genere, che ti dice per filo e per segno la strada da fare. E quanto è bella. E quanto ci vuole. E dove devi girare. E come altro ci puoi arrivare. Insomma, girato l’angolo Gianfranco chiede un’altra volta la strada. Per parlare con la gente. “Siccome che c’è”.

La Zisa (http://it.wikipedia.org/wiki/La_Zisa ) appare nella sua forza primigenia. Al-Azīza, la splendida, spicca nella spianata. E te la riesci ad immaginare in un giardino lussureggiante tra bacini di acque fresche. In realtà ora intorno alla spianata preme la città tentacolare. Ma è così ovunque nel mondo. Mi ricordo la delusione la prima volta che misi piede a Giza. In realtà le piramidi non sono lì tranquille con intorno il nulla. Su una delle sette meraviglie del mondo preme un quartiere come Centocelle a Roma. Una periferia triste e brutta. E la fatica per fare una foto evitando il balcone della signora che stende il bucato.

Cassata e cannoli. Preferisco la prima. E poi io mangio i canditi con forchetta e coltello, come fossero un cibo come un altro. Mia nonna faceva i canditi e penso mia madre e mia sorella abbiano ancora una piccola produzione. “Signo’, non se preoccupasse non s’ammaccano. La mettiamo qua la borsa”. Sull’aereo del ritorno il giovane steward autoctono riesce finalmente a convincere la signora a separarsi anche solo per 50 minuti dalla enorme sporta che abbraccia come un figlio sulle ginocchia. Non voleva mollarla. La ragione? Cassata e cannoli da traghettare in continente da curare perché arrivino perfetti.

Ancora due libri letti di recente sulla Sicilia. “Un Sultano a Palermo” di Tariq Ali, ambientato nella Sicilia mitica della convivenza arabi-normanni. Avrebbe bisogno di una sistemata nella storia, ma se non si è troppo severi ci sono margini di divertimento. E infine “Una casa in Sicilia” di Daphne Phelps, una romantica donna inglese racconta la sua casa a Taormina dove arriva nel 1948 per liquidare la villa ereditata dallo zio e dove invece decide di restare per il resto dei suoi giorni. Bozzetti italiani e storie di questa casa che si trasforma in un albergo di charme. C’è qualcosa di non detto che lascia una traccia indefinibile. Secondo Gianfranco lei forse era una spia. In realtà scopro che è un piccolo mito della cultura gay (
http://www.culturagay.it/cg/recensione.php?id=10213). Ma Daphne Phelps di tutto questo non parla mai.

venerdì 19 dicembre 2008

13 dicembre. Santa Lucia a Palermo.

“Dicci che si pigliasse ‘sti pìccioli”. Ruggero parla a Sara, ma sono io che mi devo pigliare ‘sti pìccioli. Ossia cinque euro in monete che ho posato sul tavolo davanti a Sara perché lei li restituisca a Ruggero. A cena a Palermo sto mangiando una caponata. Come un fulmine entra nel ristorante Gianfranco. Ha il taxi fuori e gli servono cinque euro spiccioli. Il taxista, come tutti i taxisti del mondo, non ha da cambiare. E Ruggero al volo gli passa i soldi. Scopro dopo aver armeggiato nella borsa di averli anche io e provo a restituirglieli. Ma sono a Palermo, inutile insistere. Come dice Gianfranco in Sicilia l’ospitalità è quasi imbarazzante.

Mi piace la caponata. Quel sapore agrodolce di oriente ed occidente insieme. E anche la pasta al forno alla moda di Palermo. “Preferisce la lasagna o quella con gli anelletti?” Vedo che gli autoctoni si muovono sugli anelletti e li scelgo anche io. Domina di fondo il sapore di cannella e di chiodi di garofano. Un’ospitalità imbarazzante. E camurrie. Esiste una movida palermitana che mai avrei immaginato.

Ma vado in ordine. Arrivo con la piccola e Gianfranco che ha da fare a Palermo. Chiamo la mia amica Sara, che vedo più o meno una volta l’anno per un aperitivo a Roma. In un’altra era, forse 25 anni fa, penso mi sia capitato di vederla molto più spesso. Era amica e collega di Norma. Devo averla conosciuta a Parigi. In questi 25 anni sono successe un sacco di cose. Ha conosciuto Ruggero – quello dei pìccioli – ed ha avuto due magnifiche figlie. Due ragazze ormai, ben più grandi della piccola. Insomma sono a Palermo, la chiamo ed entro nel circuito della sua vita. Sara lavora. E’ venerdì e mi invita a pranzo, ma non al bar sotto l’ufficio come potrei fare io. A casa. E non in cucina in piedi. Ma a tavola, che quando arrivo è già apparecchiata con tovaglia, 2 bicchieri per commensale, forchette, coltelli, posate da frutta e dolce. La piccola ed io restiamo a pranzo. Passeremo con Sara e la sua famiglia due giorni. La sera ceniamo da lei e pranziamo anche il giorno dopo. Poi andiamo a Mondello, con sua sorella Tiziana e il nipote più o meno dell’età della piccola. E anche a cena insieme, questa volta fuori in un posto magnifico. Provo a dire che vorremmo offrire noi. Mi chiariscono che è ridicolo anche solo pensarci. Civiltà e ospitalità del sud. Anche se sono meno spinti e più contenuti, “più studiati e viaggiati”, ma sempre siciliani sono.

Palermo, 13 dicembre Santa Lucia. Non si mangia pane, niente con farina di grano. Ma le arancine di riso – che in Sicilia sono femminili - sono buonissime. E poi c’è la cuccìa, un dolce con ricotta e grano che si fa per Santa Lucia. Il grano è lo stesso che si usa per la pastiera a Napoli.

Santa Lucia di sabato e chiamo Norma che Sara vuole salutare. “Insomma tu capisci, qui mangiano a casa anche durante la settimana, con i figli. La tavola è apparecchiata di tutto punto. Poi si riposano un po’ e tornano al lavoro”. Norma dall’altra parte: “Civiltà del sud. Invece io sono qui a Bruxelles. Sabato ed anche oggi lavoro. Ho preso dal frigo dell’ufficio una busta di bresaola, l’ho aperta, ci ho versato qualche goccia di limone ed ho continuato a lavorare mangiando”.

A Mondello Gianfranco ed io passeggiamo sulla spiaggia. Il mare è trasparente. Le palme di Sicilia mi commuovono. Sono state decimate da questa epidemia venuta dall’Africa, il punteruolo rosso. Nel pomeriggio a casa di Tiziana con Sara, mentre i bambini giocano, beviamo te o camomilla e parliamo tra noi. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda ed è veramente piacevole stare insieme.

Su libri e Sicilia ho solo l’imbarazzo della scelta. Camilleri non può mancare, perché come fai a non essere un po’ innamorata di Montalbano. Devo dire che anche il suo vice Mimì non mi dispiace per niente. Una vera scoperta è stato Pietrangelo Buttafuoco e “Le uova del drago”. Una storia folle e fascia, ma da leggere. E poi sono veramente persa di Gesualdo Bufalino e della sua “Diceria dell’untore”.

giovedì 11 dicembre 2008

Domenica a Roma. Con un paio di corvée di lavoro.

"Gianfranco ho proprio bisogno di un passaggio. Puoi scendere e prendere la macchina? Sono stata più di mezz'ora giù ad aspettare la metro. Niente. Deve essere successo qualcosa. Un disastro. Dovrei essere tra 15 minuti all'Hotel Hassler. Ma come posso arrivarci?" Sono praticamente attaccata al citofono del palazzo e parlo troppo forte. Gianfranco è su a casa e spero sinceramente venga preso da pietà per questa povera donna che lo implora di darle un passaggio. Domenica a Roma. Un paio di impegni di lavoro. Tutti i problemi di sempre moltiplicati dal giorno di festa. La metro ha qualche problema. Trovare un taxi nemmeno a parlarne. E io tra poco devo essere all'Hassler per una colazione di lavoro.

Gianfranco scende con la piccola. In macchina verso il centro storico. Sembra si possa entrare ma a Piazza Barberini pensiamo non sia possibile arrivare con un'auto privata fin sopra Trinità dei Monti per raggiungere lo storico Hotel Hassler. Saluto in fretta e scappo. Corro sulla strada. Un paio di negozianti romani languidamente addossati al muro a prendere il sole mi consigliano di rallentare: "Dai che glia fai...t'aspetteno nun te preoccupa'..". Sto per entrare all'Hassler e sento dietro di me la voce di Gianfranco. Affacciato al finestrino della sua macchina mi dice: "Sono riuscito a trovare un modo per arrivare fin qui. Bene vedo che comunque anche tu ci sei". E' un mago nel raggiungere luoghi inaccessibili. Ed anche nel prendere multe inarrivabili. D'altra parte del suo tesoretto di 20 punti - patente ne ha ormai solo 2. La prossima volta che dovessero fermarci sono pronta a recitare una scena madre per evitare gli ritirino la patente ed io e la piccola si torni a casa a piedi.

L'Hassler è un posto polveroso. Ma la toilette vicino al bar vale l'impresa. Mosaico chiaro lucido, toni del marrone bruciato opaco e soprattutto il lavandino spendido. Un cristallo orizzontale, nient'altro. Apri il rubinetto e fai un saltino indietro certo che l'acqua ti bagnerà. Invece il cristallo ha la giusta pendenza e l'acqua non ti inonda ma si rifugia subito nelle retrovie. Per il resto nulla da segnalare. Marmi pesanti, poltrone anche peggiori, tappeti su tappeti. Però si mangia dignitosamente. Un posto dove può regnare sovrana la Maria Angiolillo e il suo manipolo.

Mentre sono all'Hassler Gianfranco e la piccola hanno deciso di rompere un tabu e sono da McDonald. Troverò a casa la sera i segni inequivocabili di questo passaggio. Un paio di pupazzetti, tutto pulito in cucina e il senso di colpa di Gianfranco di non esser riuscito a evitare l'hamburger.

Dopo la colazione all'Hassler devo andare ad una trasmissione nazional-popolare del pomeriggio della domenica. Dietro i riflettori le ballerine mezze nude scaldano i muscoli. Le anchorwoman usano sandali rossi con tacchi di 15 centimetri senza calze. Poi anche l'ultima corvée finisce. Mi rifugio a casa. Mi aspetta Enrico Grazzini "L'economia della conoscenza oltre il capitalismo". Pare che andiamo verso "una nuova cultura, nuove iniziative democratiche e un'economia produttiva fondata sulla collaborazione e la comunicazione".

Vienna, metà ottobre. A pranzo da Tante Inge.

È ancora molto bella. Gli anni hanno ancora chiarito i suoi occhi. Ha un twin set azzurro polvere che rende più intenso il celeste del suo sguardo. Un piccolo bracciale d’oro al polso rende evidente che si è vestita con maggiora cura per noi. Tante Inge è stata sposata per una vita con uno dei più cari cugini viennesi di mio padre. Ha certamente più di 80 anni. Lo chiederò ai miei genitori quando saremo usciti. Non si parla di età con una signora. Così bella ancora, per giunta.

Metà ottobre e a Vienna fa freddo. Veniamo da Roma dove sono ancora 25 gradi. Mia madre ha abiti più sud tirolesi di lei. Cappello con piuma regolamentare. Mio padre è l’unico che parla con ognuno nella lingua madre. La piccola saltella e si capisce che non resisterà a lungo nel chiuso dell’appartamento. La tavola è apparecchiata per 9. Siamo noi 5: mia madre, mio padre, Gianfranco, la piccola ed io. Poi la nostra padrona di casa, Tante Inge appunto. Infine tutti quelli che lei è riuscita a raccogliere per questo pranzo di un’antica famiglia europea. Andreas e Christiane, ossia uno dei figli di Inge, cugino per me di grado terzo – forse più largo ma solo mio padre può dirlo con certezza – e sua moglie. E poi c’è l’ultimo figlio di Christof, ossia il più giovane dei nipoti di Inge. Stessa generazione della piccola. Avrà una ventina d’anni e mi parla in spagnolo. Si capisce che il castigliano è per lui la chiave per entrare nei mondi latini. Oltre noi in casa la gentile fantesca filippina di un’amica di Inge venuta a dare una mano per l’evento.

Il figlio di Christof mi versa del vermouth. Parliamo in inglese perché facciamo prima, ma Christiane interviene in italiano e anche tante Inge ci prova, ha appena cominciato un nuovo corso all’università della terza età. Mio padre parla in tedesco con Andreas. Il mix è tremendo. Papà è perfettamente a suo agio. Gianfranco fa un po’ fatica a star dietro a tutte queste parole in italiano, tedesco, spagnolo e inglese.

Ci mettiamo a tavola. Tante Inge ha preparato una zuppa tirolese. Buona e particolare. Poi per la gioia della piccola, wienerschnitzler, ossia cotolette alla milanese, che qui sono alla viennese. Contorni. Andreas non riesce proprio a sedersi. Versa il vino, prende una foto, va a cercare un vecchio ritratto che mia madre da tanto voleva rivedere. Anche la piccola dopo un po’ non riesce più a stare seduta. Mio padre tiene banco in tedesco, raccontando di quando non tanti anni fa ha messo piede per la prima volta nella casa d’origine in Ungheria. Una buona famiglia austro-ungarica ha sempre una casa antica che non è stata vista per più di 50 anni. In Ungheria. Christiane mi è vicino e già questo è un regalo. Sorride guardando la piccola: ”Anche Jakob non riusciva mai a stare fermo. Ora è così bravo che quasi non riesco a crederci”. “E’ a Londra e ormai è uno storico” le chiedo. E lei: “Sì, ma era proprio come la piccola. Impossibile tenerlo fermo”.

Gianfranco parla in italiano. È qui perché un suo film è alla viennale. Andreas e Christiane sono venuti alla prima. Tante Inge no, troppo pesante per lei. Ma ha seguito tutto il dibattito su questo lavoro sulla nascita delle BR a Reggio Emilia. Chiede in un mix di italiano, tedesco e inglese: “E queste persone sono state in carcere?” “Sì – dice Gianfranco – uno degli intervistati si è fatto vent’anni”. Tante Inge è serafica: “Ricordo di aver conosciuto anche io un terrorista tanti anni fa. Un terrorista del Tirolo. Si sarà fatto 30 anni di carcere”.

Una famiglia europea da sempre. Una casa semplice, confortevolmente borghese. Il caos di mischiare le lingue. Una bambina che non ce la fa più a stare a tavola e come i cani deve uscire per correre all’aria aperta. Mio padre ormai parla solo tedesco. Tante Inge prova a non muoversi dall’italiano. Ha un nuovo professore molto gentile. “Beh, devi chiedergli di metterti in condizione di venire in Italia a primavera” le dico. E Inge: “L’ultima volta che sono venuta in Italia c’era ancora Friedel”. Mio padre mi chiarirà che Friedel – il marito compagno di una vita di Inge – è morto a gennaio dello scorso anno. Faceva un freddo cane. Mio padre è venuto a Vienna per l’ultimo saluto. Un’occasione triste. Ben diversa dalla gioia di stare insieme. E anche di poter presentare a tutti la piccola, la pestifera nipotina bionda, alta e molto familiare. Per tutti.

Sto leggendo “Sulle mie tracce” di Gregor von Rezzori. E’ come vedere scorrere pezzi di storie che sarebbero potuti essere della mia famiglia. Lui che nasce in un calesse mentre la madre fa ritorno alla casa avita. La Vienna degli anni ’20 e ’30. Bucarest e le province dell’impero. Ricchezza che si trasforma in un pugno di anni in miseria. Guerre e fame, amori e sogni. Le porcellane della nonna vendute al monte dei pegni. La forza di ricominciare quando tutto sembra perduto.

sabato 6 dicembre 2008

Metto mano al guardaroba. Mi libero del superfluo. Per accumularne altro. Ancora più vecchio.

“Devo comprare qualcosa di nuovo. I vestiti mi durano 20 anni e poi alla fine sono sempre gli stessi. Magari la vita un po’ più stretta o le spalle meno strutturate, ma alla fine da un certo momento in poi ho cominciato a mettere sempre le stesse cose”. Jackie traduce nel linguaggio della moda: “Insomma hai consolidato il tuo stile”. Sono perplessa. “Sarà. Certo in inverno uso soltanto scarpe maschili e in estate infradito. Anche quando non andava, ho sempre usato molto il viola. Sai è un po’ stata una reazione a Gianfranco, che lo considera abbastanza disdicevole”. Jackie sorride: “Ma lo sai com’è fatto. Continua a pensare che il viola porti iella”. “Beh ti dirò, una volta mi ha chiesto di non mettere un abito da sera comprato la mattina proprio per la serata. Non era viola, giuro. Ma secondo lui aveva un retrogusto che si sarebbe potuto avvicinare al prugna. Certo era una cena di attori di teatro. Sensibilità quanto mai spiccata per il viola. Forse anche più di Gianfranco. Non misi l’abito, ma per il resto ho sempre usato ed abusato del viola”.

Jackie tenta di riportarmi al concreto: “Che ti serve? Soliti tailleur pantaloni o qualcosa di più divertente?” Ed io: “Ma non lo so. Fai tu. Qualcosa da usare normalmente”. Jackie non è una stilista e non ha una boutique. È un analista finanziario, il miglior analista di bilanci che conosca. Ed è il mio personal shopper. Tanto io detesto andare per negozi – non dirò mai fare shopping perché fa schifo – tanto al contrario lei ha la mappa completa di tutto quello che c’è in circolazione. A Roma e Milano, diciamo. Perché vive nei negozi, quando non lavora o dorme. E lei lavora quasi sempre. Ogni tanto dorme. Poi mi conosce davvero, sa che cosa è adatto al mio spirito oltre che al mio corpo. Per chi le è più vicino è in grado di dare uno sguardo a ciò che è in vendita e di decidere cosa può andare bene. Quando ho bisogno di qualcosa, alzo il telefono, la sento 20 minuti e lei mi dà il quadro aggiornato di dove andare, quando ed anche più o meno di quanto spendere. Fantastico. Non potrei farne a meno. Ogni tanto glielo ripeto “Dovresti trasformare questo talento in un lavoro”. Ma lei nicchia. “E’ qualcosa che riservo solo agli amici. E poi che vuoi che ne sappia di cosa può essere adatto a chi non conosco?”

Insomma metto mano al guardaroba. Se un vestito ti dura 20 anni a un certo punto ti devi liberare del superfluo. Giusto per metterti nella condizione di accumularne altro. Qualcosa di più nuovo e un po’ più adatto al tempo trascorso su di te. Poi le cose sono più o meno le stesse. Così un sabato e una domenica ho smontato tutto. Ho salutato con affetto abiti che mi hanno accompagnato ogni giorno e che da alcuni anni non metto più. Decidere di lasciare alcuni vestiti è stato triste, ma comunque la decisione era presa. Ho messo tutto in una grande valigia e ho cominciato una ricerca su che farne. E ho scoperto un mondo. Siti per scambiarsi le cose – tipo
www.scambiamoci.it il portale del baratto on line, che ha ben 32 categorie e la prima è abbigliamento – mercatini dell’usato, che a Roma possono impegnare anche tutti i week end. Anche senza www.ebay.it, su internet non si fa altro che provare a vendere. Ho fatto anche una piccola ricerca tra chi mi è capitato a tiro. Si organizzano incontri tra amiche e tra colleghe per scambiarsi o vendersi abiti. “Jackie, ma tu che compri vestiti 10 volte più di me, che ne fai?” Mi risponde tranquilla: “Ma sai non mi sono mai posta il problema. Le cose migliori le do a mia sorella, il resto lo porto giù al paese”. E penso alla fortuna delle ragazze del posto d’origine di Jackie cui può toccare in sorte una giacca di Etro di una vera esperta di moda.

Mi guardo in giro, chiedo, continuo a dirmi che devo prendere una decisione. Poi una sera mia madre mi telefona per dirmi che con mio padre hanno in programma un viaggio con parecchi incontri di rappresentanza. La domanda è chiara: “Hai qualcosa da prestarmi?” Va da sé che mia madre ha un guardaroba di cose stratificate in ere precedenti. Ma qualcosa di diverso fa sempre comodo. E piacere. “Ma sì dai, ho messo mano al guardaroba, ho una valigia di cose veramente belle, perché non vieni a provarle?” Tempo tre ore e la camera da letto si trasforma in una sala prove. Le va tutto benissimo ed è molto adatto a lei. I tailleur di taglio maschile le donano e i capelli bianchi sono molto divertenti con abiti da ufficio. Prova una giacca di Guy Mattiolo. Le sta benissimo, ma la piccola non resiste “Nonna mi è sempre piaciuta tanto”. E lei tranquilla: “Ma cara la metterò un po’ e poi la porterai tu”. Insomma regalo tutti i vestiti a mia madre. Ma lei ha già deciso li darà a mia figlia. Tra 10 anni.

Ci penso e ci ripenso. C’è qualcosa di conosciuto in questo darsi i propri vestiti usati. Mia madre ha conservato per molti anni abitini che ho messo quando ero bambina. Non sono andati persi. La piccola li ha usati. Poi insieme mia madre e mia figlia mi hanno convinto a conservare queste cose per la figlia della piccola. Quando arriverà avrà un sacco di cose carine. Ma non è l’unico caso. Abbiamo un giro di vestiti pazzesco. Quelli della piccola, che non dovranno arrivare a sua figlia, finiscono alla cuginetta. Quelli di Gianfranco ad un amico. Quelli dei figli di mia sorella arrivano a casa mia. L’uscita di scena dalle nostre case è Elisabetta, la tata della piccola, quando si decide che qualcosa ha proprio fatto il suo tempo le viene consegnato e lei provvede a distribuirlo sulla base della sua saggezza.

Insomma mi libero del superfluo. Poi mia sorella mi scrive una mail: “La madre di Mary è purtroppo finita. Oltre a delle mantelle, mi sono state regalate alcune bellissime borse di coccodrillo. Ho deciso di dartene una. Ti do quella nera e io mi tengo quella a bauletto (che ho dato a mamma per una piccola revisione). Anche quella che do a te andrebbe un po' revisionata e magari si potrebbe far aggiungere una catenella per metterla sulla spalla. Sono bellissime e tutto sommato in buone condizioni”. Le rispondo prima che mi venga recapitata una di queste meraviglie: “Grazie, ma io poi quando la uso. Tienila tu, per me non credo sia adatta. Invece mi potresti regalare una delle mantelle, che certamente è più vicina al mio stile di vita. che dici?” Insomma mi libero del superfluo per accumularne altro. Ancora più vecchio.

E penso al libro da mettere in questa piccola storia. Cammino nel corridoio e l’occhio mi cade su “Scuorno”, ossia vergogna, di Francesco Durante. E decido di metterlo qui. Perché è un bel libro, perché ci sono un milione di connessioni ed anche perché sono mesi che Gianfranco ed io cerchiamo disperatamente “Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti 1776-1880” proprio di Durante. Magari metterlo qui ci porta bene e qualcuno che vuole liberarsene mi scrive per passarlo appresso e fargli fare un giro come accade agli abiti usati tra noi donne della mia famiglia.

sabato 15 novembre 2008

La donna che scrive racconti di cucina

“Sai non so più nemmeno perché ho cominciato. Poi è diventata un’abitudine ripensare a pezzi della mia vita partendo da quello che c’era nel piatto. Soprattutto all’infanzia. Le salsicce di casa di una delle mie nonne, che non si compravano ma si facevano solo in un periodo dell’anno, e la marmellata di albicocche dell’altra. Le cose che piacevano a noi bambini e quelle che detestavamo. Pane, zucchero e caffè per placare il bisogno di dolce di mio fratello quando quarant’anni fa non era così scontato comprare merendine e dolci industriali. I sapori di Natale e quelli di ferragosto”. Parla tranquilla e mi chiede che ne penso delle sue storie. Le rispondo convinta: “Sono bellissime e poi divertenti. Quando le trovo tra le mail non posso fare a meno di fermare tutto e leggerle. Ti riportano veramente a un mondo diverso. Sono così cariche di vita vera. Forse ci metterei ogni tanto una ricetta. Sei una cuoca coi fiocchi, magari irretiti dalla storia si decide di provare a fare un piatto. Due piccioni con una fava. Un po’ di divertimento e qualcosa di decente da mangiare. Sta diventando sempre più normale che non si cucini più. O almeno non come cosa ovvia di tutti i giorni. E non credo faccia bene al corpo e allo spirito”.

Io per prima cucino poco, ma non è per partito preso. Certo non ho mai avuto un grande talento. Poi in fondo mi piace mangiare, ma se penso a un cibo di cui proprio non potrei fare a meno mi viene in mente solo il pane. Gusti primordiali e no frills. Beh, ogni tanto un po’ di frills non mi dispiacciono però non è determinante. Per Norma per esempio lo è. Lei se non mangia bene s’intristisce. Io non ricordo nemmeno cosa avevo nel piatto ieri. E posso mangiare verdura o insalata scondita ed anche senza sale e mi piace.

Però cucinare è un modo per stare bene. Una delle vie per essere felici. Una quindicina di anni fa per riprendermi dalla vita snaturata della settimana il sabato facevo le pizze. Più per impastare a lungo e ritrovare nella lievitazione un tempo fisiologico di attesa. Gianfranco me lo ricorda sempre: “E poi ti mettevi in cucina e facevi la pasta per le pizze”. Preparare qualcosa e aspettare. Impastare e mettere la pasta a lievitare. Accendere il forno, aspettare che diventi caldo e poi cuocere. Poi c’è stato un momento di grande disperazione, quando Gianfranco era molto malato, in cui compravamo le pizze pronte surgelate da infornare. Passata quella tempesta nessuno dei due ha mai più comprato una pizza surgelata. Non ce lo siamo mai detto. Non sopporteremmo quell’odore che esce dal forno. E’ un aroma preciso, buono, ma legato alla disperazione.

Ormai, tranne la cucina di sussistenza, faccio veramente poche cose. Restano le marmellate. Deve essere una questione ereditaria. In famiglia faccio parte della linea di quelli che non hanno un talento eccelso in cucina, ma fanno marmellate anche più buone di quelli che svettano tra i fuochi. Le mie marmellate sono rinomate. E anche Francesca, che certo ne capisce per famiglia e provenienza, mi chiede sempre di ricordarsi di lei quando metto mano ad un fine settimana di produzione. Dei giri di vasetti di albicocche, ciliegie, arance amare, fragole, susine, pere, che non vi dico.

Continuo a consigliare di aggiungere ai racconti una ricetta. Nessuna risposta. La cosa viene lasciata cadere così, senza darle troppo peso. Perché una cosa è raccontare pezzi della propria vita, anche molto personali, e tutt’altra dare una ricetta tramandata di generazione in generazione in famiglia oppure lasciata in eredità da chi ti sceglie come erede molto speciale. Anche senza arrivare alle madeleine di Prust, scopro che questa di raccontare i propri ricordi attraverso i piatti sta vivendo un momento di grande successo. Leggo la storia della frittata di maccheroni di Raffaele La Capria (“Autori Vari, Le nuove ricette del cuore, a cura di Carla Sacchi Ferrero, Blu edizioni”), che racconta della cuoca Rosaria di quando era bambino e della mamma ottuagenaria che tentava di irretirlo con la frittata di maccheroni per indurlo ad andarla a trovare. La Capria dà la ricetta, che si fa regalare da un’amica visto che chiaramente non dispone di un proprio patrimonio. Sempre su questa strada il gusto assoluto può venire solo dalla memoria. O almeno questo si ricava da “Estasi culinarie” di Muriel Barbery, che è diventata famosa dopo questo libro con “L’eleganza del riccio”. Un po’ troppo costruito quest’ultimo lavoro, come solo i francesi possono fare, ma divertente anche se non sempre credibile e sopportabile.

Poi scopro che secondo Davide Scabin, in testa alle classifiche degli chef italiani, il gusto è frutto di tante cose. Potrebbe anche essere il formaggino Mio nella pastina. O per un americano un vago aroma di petrolio che serve per accendere la carbonella del barbecue e può materializzare il ricordo di week end passati. O ancora un lontano sapore di bruciato nel sugo. E Scabin ci prova a riprodurre queste sensazioni.

Le ricette, quelle vere, fanno la differenza. Lo dico sempre alla donna che scrive racconti di cucina. Che non avrebbe problemi a mettere sulla carta come fare alcuni piatti davvero speciali. Oltre a storie davvero divertenti, che ben conosco visto che lei è mia sorella.

domenica 9 novembre 2008

Elisabetta è bisnonna. La bellezza di vedere un pronipote.

“No, non posso proprio venire domani, vorrei parlarti da vicino…ma sai è successa una cosa…”. E io “Ma sì dai non preoccuparti, ora troviamo una soluzione…metto giù e chiamo Adriana, verrà lei…vedrai lei riesce sempre a trovare un modo per sistemare le cose. Ma dimmi cosa è successo…tutto bene? Tuo marito?” Elisabetta è agitata e si sente. “No, No, tutto bene…solo che…solo che…sono diventata bisnonna. Ma ti rendi conto? Lei ha solo 17 anni e lui non ancora 19”. Rispondo entusiasta “Mi sembra la cosa migliore che ti potesse succedere. Anche per lei in fondo sarà bellissimo…pensa alla mia età avrà un figlio di 30 anni…e per te poi è fantastico. Io non so nemmeno se diventerò mai nonna e invece tu hai già visto in faccia il figlio di tua nipote. Ma ti rendi conto?”.

Elisabetta è la tata della piccola. Una tata-tata, protettiva e accudente anche con Gianfranco e con me. “Ma pensa che bello, un bambino piccolo tra le mani. Beata te”. Trasposizione reale di “Tutto per una ragazza” di Nick Hornby. Ma qui è tutto vero. Lei continua ad andare a scuola e a lui, come dice testualmente Elisabetta, “I genitori un po’ gli hanno menato”.

L’impero è morto, viva l’impero. Quelli come noi, neri o bianchi ma non ancora grigi

“Ma capisci è uno di noi, ha la nostra età, deve aver visto qualcuno dei telefilm che ci piacevano da bambini e bevuto il latte col Nesquik o qualcosa del genere”. Mattina prima di uscire. Mentre mi lavo i denti in bagno Gianfranco parla tra sé e con me. Si emoziona sempre quando succedono certe cose. D’altra parte quando andammo a vedere “Bambi e il grande principe della foresta” era lui quello commosso davvero per la difficoltà di cresce del piccolo cerbiatto senza madre e con un padre parecchio assente. Insomma era molto più travolto della piccola, che gestiva con molto equilibrio la cosa. E certo Barack Obama è un buon motivo per sentir dentro l’emozione. Obama. La grande splendida nonna bianca che lo aiuta a crescere, arriva a votarlo e muore due giorni prima che diventi presidente. E l’altra nonna, che in Kenia catalizza i festeggiamenti nei suoi abiti tradizionali africani. Una madre giramondo e un padre che sparisce. La forza di sognare e di vincere.

L’impero e morto, viva l’impero. L’America ha tirato fuori dal cappello la capacità di stupire, di emozionare e di vincere. E come fai a non riconoscere che la forza trainante è lì. E poi l’Africa in festa per l’elezione di un presidente americano. Ma questo è il macro. Io nemmeno l’avevo seguita con troppa partecipazione la vicenda Obama. Ho sinceramente metabolizzato la ricchezza della diversità per stupirmene o per intusiasmarmene.

E però c’è un micro che mi tocca. Perché poi ci pensi e ti rendi conto che il presidente degli Stati Uniti d'America ha la tua età. E' uno di quelli come noi, neri o bianchi ma non ancora grigi. Quelli grigi sono molto molto capaci, svegli, tosti e pieni di fantasia. Non mollano, tengono la rotta e potrebbero continuare a guidare la baracca a tempo indefinito. E quelli come noi non sono più nemmeno tanto giovani. Insomma ora tocca a noi. Tireremo le somme tra 15 o 20 anni.

E poi ci sono i ragazzini. Ho visto che è uscito l'ultimo volume della saga di Eragon, storie di draghi e di ragazzi scritte da un americano giovane giovane. Devo comprarlo. Il primo, Eragon, è carino, anche da consigliare per un adolescente che ami il fantasy. Il secondo, Eldest, è pessimo, forse anche pericoloso, da non girare ai ragazzi, perché il protagonista a un certo punto si invasa, si basta nel corpo e nella mente e si tramuta in elfo. Nulla contro la mutazione, ovviamente, ma questo bastarsi parossistico, questo avere comunque tutte le risposte, beh insomma lo lascerei ai professionisti della trascendenza. Ma cosa ci può essere di meglio di un Dio in cui credere. Poi se proprio uno non ci riesce pazienza. Però l’assenza del dubbio e avere tutte le risposte non mi pare sia salutare. Devo leggere il terzo, Brisingr, e vedere che ha combinato il prode Christopher Paolini e la sua eletta schiera di professionisti della scrittura per adolescenti. Mi sa che intrapresa una strada difficilmente si torna indietro. Pronta a essere smentita e anche contenta di esserlo.

domenica 2 novembre 2008

Il mestiere di vivere al tempo della crisi finanziaria. Con un minimo di coscienza. E il crollo dell’impero americano.

“Ma tu che dici, che succede?” Ed io: “Sinceramente non lo so. Certo tutti immaginavamo che se il centro dell’impero avesse un colpo lo avrebbe avuto da fuori. Ma il castello di carte che piano piano crolla, no non ci avrebbe mai creduto qualcuno davvero. E invece, visto che la vita ti sorprende sempre, ci tocca pure vedere l’implosione del sistema”. Insomma io tento di volare alto. Ma dall’altra parte questo interessa poco. “Sì, va bene, ma che faccio: compro Bot, tolgo i soldi dalla banca, mi metto a comprare azioni, faccio pronti contro termine, riduco il mutuo? Insomma che succederà?” “Se lo sapessi…ma è davvero difficile fare previsioni. Che cosa fare dipende dalla tua situazione, in genere quando il quadro è molto incerto è bene aspettare e non fare scelte azzardate”. Rinaldo mi fissa con l’aria di chi pensa “guarda questa, in fondo lei lo sa che cosa succederà e nemmeno uno straccio di consiglio vero”.

Il mestiere di vivere al tempo della crisi finanziaria vuol dire fare i conti giorno per giorno con chi ti chiede come muoversi con i propri soldi. E tu proprio non lo sai, non è che non glielo vuoi dire. Il minimo di coscienza sta nel non lasciarsi sopraffare nemmeno una volta da quel piccolo povero diavolo tipo Benigni che ha una piccola tana in ognuno di noi. Perché la tentazione di non rispondere con il buon senso a uno, anche a uno solo, di quelli che ti chiedono che fare è veramente forte. Non è cattiveria, è che il piccolo diavolo Benigni adora fare scherzi. Ma il buon senso prevale e in questo aiuta poter filosofeggiare sul crollo dell’impero americano per implosione.

Metto i pezzi uno di fila all’altro: 1. alcune cose certamente non saranno più come prima, tasselli importanti e anche il mondo nel suo complesso; 2 l’America si dovrà ripensare; 3. l’Europa ha un suo peso in questo gioco, ma è tanti ognuno per la sua strada; 4. Cina e India non stanno a guardare; 5. che cosa sarà in termini di recessione vera davvero non lo sa nessuno.

La cosa che più fa pensare è il crollo dell’impero americano. E mi torna in mente “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Robert M. Pirsing, il viaggio nell’America profonda della psiche e del territorio, dove forse si annidavano già i prodromi dello stato delle cose per cui un vero impero implode. Grande bellissimo libro. Difficile fare il bis. E infatti “Lila: un’indagine sulla morale” che arriva vent’anni dopo non regge il confronto.

domenica 12 ottobre 2008

Tre toilette. E non nel senso di abiti.

“Passo Stanhope 2100”. Che non è una formula iniziatica ma un sms di Norma. La traduzione è: “Visto che sei a Bruxelles, passo a prenderti al tuo albergo, lo Stanhope, alle ore 21.00, così ceniamo insieme”. C’è chi scrive sms perfetti, contratti nel modo giusto, e chi continua a pensare che l’italiano è l’italiano e tutto vada comunque scritto secondo le regole. Quando parlo di questa seconda categoria penso a Gianfranco, che in realtà non sa, non vuole e comunque non scrive sms. Ogni tanto ti chiede di scriverne uno per lui e ci mette tutto: articoli, preposizioni, avverbi, due punti, virgole, punti e virgola. In ogni caso tra i due estremi – gli smsisti perfetti e quelli che non riescono a contrarre – c’è un’infinita gamma di sfumature. Norma ha una categoria sua propria. Quando ti manda le sue abbreviazioni è un messaggio criptato solo per te. Ed è divertente leggere i suoi sms anche per le parti più lunghe. Perché per esempio 2100 e non 9, quattro cifre invece di una?

Comunque sia sono a Bruxelles e vado a cena con Norma. Lei passa in albergo e viene su in camera per vedere la bellissima suite dove sono sistemata. Puro caso per me e necessità per l’albergo. Mi sono fatta cambiare stanza perché puzzava di fumo stantio e, visto che non avevano altro, mi hanno piazzato in una suite principesca. Norma ama gli alberghi di livello e le belle suite. Di qui la verifica della mia sistemazione. Andiamo a cena al Belga Queen. Ristorante pieno e necessità di riempire un po’ di tempo. “Vieni a vedere lo spazio disco che hanno al piano di sotto”. Scendiamo, passiamo una porta corazzata, dentro tavolini, poltrone e luci basse. “Si capisce, vero? Era una banca. Nel caveau hanno organizzato la discoteca”. Risaliamo e andiamo alla toilette, perché Norma mi dice che “la toilette del Belga Queen è da non perdere”. Entro ed è tutto di vetro, nemmeno opaco. “Ma scusa, il bagno è con tutti cristalli trasparenti, ma che intimità c’è?” Ma Norma è pronta a mostrarmi la magia del gabinetto del Belga Queen. Entra e nel momento in cui gira la chiave tutti i vetri diventano lattiginosi, proteggendo la privacy di chi è dentro. “Beh, carino” dico io. E Norma dall’altra parte del vetro “E’ di Philippe Starck, come quella specie di lungo tavolo di marmo che è il lavandino”. Ma può essere che Starck abbia disegnato di tutto, anche i gabinetti trasparenti che diventano opachi? Poi magari si faranno le guide, qualcosa tipo “Toilette d’Europa”.

Due gironi dopo sono a Nizza. Settembre ma con un clima da estate ancora piena. Sono all’hotel Splendid. Arrivo in albergo e devo lasciare i bagagli all’ingresso, non ho il tempo per andare in camera. E così chiedo della toilette. Mi indicano quella vicino alla reception. Entro e le luci si accendono al mio arrivo, lucette piccole incastonate ai lati del grande specchio sul lavandino. E’ tutto di legno, pietre levigate ed acciaio. Bello l’effetto lucido – opaco. Insomma una magnifica toilette, comoda senza essere troppo elegante per sentircisi bene dentro. E’ la cosa migliore dell’hotel. Perché l’albergo è carino ma deve avere avuto giorni migliori. Un intero palazzo con piscina all’ultimo piano. Ma è tutto un po’ da sistemare. Per esempio la mia camera è bella, con balcone e aria condizionata, ma almeno un paio di cose andrebbero rifatte. Continuo a premere il pulsante per aprire una delle due serrande automatiche. Niente, non funziona, e resto quasi al buio mentre fuori la luce è abbagliante. E la vasca da bagno è tutta scrostata. Anche la piscina all’ultimo piano ha un’aria da vorrei ma non posso.

La toilette dell’hotel Villa d’Este a Cernobbio è in realtà un luogo d’incontro dove fare il punto. Al piano seminterrato due grandi sale con specchi, piccoli camerini gabinetto, asciugamani di stoffa, e l’atmosfera giusta per far finta di darsi la cipria mentre si analizza la situazione da sole o in compagnia. Senti discorsi di tutti i tipi, ma certo anche andare al bagno diventa un po’ lavoro.

Resta da definire il libro da lasciare alla toilette di casa propria. Una cosa carina, con una bella trama netta. Mi è molto piaciuto “La bastada di Istambul” di Elif Shafak. I turchi e gli armeni, il passato e il presente, una trama tramosa. Così se lo lasci per un po’ non è un problema quando lo riprendi. E poi chi ha detto che si devono leggere solo libri che vendono poco e magari fai fatica a portare avanti?

lunedì 6 ottobre 2008

Cernobbio. Incontri e scambi lungo il lago sotto il cielo di settembre.

“Ma l’hai vista com’è vestita”. Ed io “Sai le americane hanno ancora il coraggio di vestirsi di rosa, mettono farfalline tra i capelli e riescono ad avere la forza evocativa degli anni ‘50”. Il mio interlocutore è stanco “Io me ne vado, non vedo l’ora di togliermi le scarpe. Ora qui cambia del tutto l’atmosfera. La cena di gala, i fuochi d’artificio e tutto il resto non sono per me”. Io invece resto. Voglio vederlo fino in fondo l’happening. E’ la tre giorni Ambrosetti, che riunisce dopo la pausa estiva quelli che contano e quelli che vorrebbero contare a Villa d’Este a Cernobbio. E’ un grande palcoscenico di incontri e di scambi. Meglio è l’appuntamento di tanti mercati. E lungo il lago sotto il cielo di inizio settembre vedi all’opera al meglio mercanti di idee, di scenari, di presente e futuro, di immagine, di politica, di economia e di molto altro.

Le cose cambiano. Mai come quest’anno le donne cominciano davvero ad apparire in posizioni diverse. C’è la signora sindaco tosta e la leader delle imprese. Poi certo ci sono anche le americane vestite di rosa e quelle che per il galà si mettono carine e molto scollate. Al solito la vita ti sorprende. Quelli che pensavi fossero seri e un po’ tristi sono invece simpatici e divertenti. Qualche uomo politico arriva con la fidanzata e diventa vittima e vedette per il dato sentimentale. Che poi in fondo sarebbe l’unico su cui si dovrebbe sospendere il giudizio e farsi gli affari propri. Lo scenario è da favola. Villa d’Este un incanto, una casa principesca tra prati e giardini curatissimi. Bella la piscina coperta, splendida quella scoperta, una penisola agganciata alla riva con l’acqua più blu rispetto al tono più cupo del lago.

Il vice presidente americano, Dick Cheney, arriva con una scorta da parata. I più vecchi fra i frequentatori raccontano a cadenza periodica ravvicinata dei bei tempi andati, quando arrivava in elicottero l’Avvocato. Certo la tre giorni è un prodotto dell’ingegno. Duecento persone o poche di più – gli ospiti di serie A – pagano 10mila euro per stare tre giorni in una stanza e sentire gli interventi più diversi. Poi ci sono contatti, relazioni, scambi, incontri. La genialità è nel vendere ad ognuno ciò che vuole e rendere la cosa esclusiva e d’elite. Poi ci sono gli ospiti di molti altri livelli e tutto il contorno.

Avevo pensato molto a che libro portare con me, perché in fondo un libro è un amico che ti può dare una mano a staccarti dalla realtà in queste full immersion totalizzanti. Una specie di smaterializzatore che ti scaraventa da un’altra parte. La scelta era caduta su “Una nuova terra” – “Unaccustomed Earth” – di Jhumpa Lahiri. L’India e gli States connessi dal filo rosso di gente che lascia la propria terra e ne trova un’altra. Molte le ragioni della scelta. Lei è bellissima e fascinosa nella foto in terza di copertina. In più gli indiani non mi avevano mai deluso. Terza ragione: da 3 o 4 anni diventa sempre più forte la voglia di mettere piede in India. E poi avevo letto molto del libro. Per gli americani un successo.

La mia scelta non è stata felice. Buoni gli spunti e la partenza, ma poi qualcosa si perde sempre per strada. O non mi raggiunge. Non c’è mai un colpo d’ala, una sorpresa, un affondo, uno stravolgimento. Anche la storia più strutturata – quella che a un certo punto fa tappa a Roma – si potrebbe non raccontare. O meglio è come se non fosse stata raccontata. E non ti sorprende. Mai.

sabato 30 agosto 2008

Arafat in 20 metri quadri. Tarek è a pranzo da noi.

“Sai la stanza non era più grande di questa cucina, 20 metri quadri. Forse più piccola. Un letto, un armadio, le sue cose, un vestito scuro stirato. Poi ho visto la sua kefia. Come può commuoverti una piccola cosa…più di una fotografia…più di una storia…”. Tarek racconta e racconta. Mangiamo in cucina pasta al pesto fatta al volo da Gianfranco. E’ tanto che non ci vediamo. Ha passato molto tempo in Palestina nell’ultimo anno. “Mi hanno fatto entrare per amicizia. Arafat significa tanto. Era la stanza dove alla fine viveva. Povera, scarna e anche piccola. E lui stava lì”.

Il filo del suo discorso collega momenti e luoghi diversi. “E poi sono stato a Gerusalemme. Il Santo Sepolcro. Sapete la storia delle chiavi? Sono da secoli custodite da due famiglie mussulmane neutrali. Si dice che abbiano avuto l’incarico dal Saladino. Ogni sera si chiude e ogni mattina si riapre. Io con voi mi sarei fatto chiudere dentro per passare la notte lì”.

Tarek è più occidentale di me. Resta un ingegnere, anche se ormai è soprattutto un direttore della fotografia. E poi è tunisino, quindi francofono, con una logica cartesiana che guida la connessione dei suoi tasselli. Ma è anche un uomo arabo. C’è in lui questo parlare e raccontare e attardarsi sulle cose e emozionarsi e commuoversi e arrabbiarsi e riprendere un altro filo e ricominciare.

Tarek è metropolitano come pochi. Vivere in un piccolo centro pensa che in fondo sia sempre temporaneo. Non si può che tornare in un ambiente naturale, ossia una metropoli. Secondo lui è normale vivere solo in una grande città, possibilmente in centro. Ma mi ricordo il paese da cui veniva la sua famiglia. Struggente, non lontano dal mare, in una campagna tunisina arcaica e verde quando ci misi piede io. E lo zio anziano, pater familias nella casa antica. E la vecchia zia rimasta al paese vestita in abiti tradizionali con tutti i gioielli indosso – “Li ho sempre usati tutti i giorni per fare tutto” – che copriva il televisore con una coperta per proteggerlo. Guardando i gioielli della zia e il loro uso quotidiano avevo finalmente capito che le cose preziose andavano usate sempre per tradizione. Le strade dei bazar dedicate ai bracciali d’oro sono il luogo dove comprare una forma di protezione. Perché ti sposi, ti regalano tanti cerchi d’oro, che puoi senza problemi portare addosso. Se succede qualcosa puoi fuggire con tutti i tuoi beni, che possono comunque tornarti utili.

Tarek è Voltaire e un pezzetto di Mille e una notte. E poi a un certo punto si arriva in qualche modo a parlare anche d'amore. E mi torna in mente “Il lato oscuro dell’amore” di Rafik Shami, siriano di Damasco ma ormai anche tedesco. Shami si è laureato in chimica ad Heidelberg e dagli anni ’70 vive in esilio in Germania.

giovedì 28 agosto 2008

Dissonanze all’enoteca Pinchiorri. E anche l’eccellenza può diventare simpatica.

Sì, vado alla toilette. Perché come fai a essere in un posto così e a non andare a vedere come sono i bagni. E allora vado. Il bagno delle signore è perfetto come ci si aspetterebbe. Saponi, asciugamani, specchi. Poi mi guardo intorno e lo vedo. Sotto una testa di cavallo di vetro/cristallo spicca in tutta la sua umana dissonanza un centrino tondo lavorato all’uncinetto. Ora non so che rapporti abbiate voi con i centrini, ma i miei sono pessimi. Preferisco educatamente astenermi dall’esprimere la mia vera opinione su questi oggetti. E’ la prova del nove. L’enoteca Pinchiorri mi piace proprio. Perché certo si mangia divinamente e si beve meglio. Poi, quando meno te l’aspetti, cade il sipario e il luogo dell’eccellenza diventa molto umano, con qualcosa di discutibile che rende simpatica anche l’eccellenza. E’ il centrino tondo in bagno sotto la testa di cavallo.

Stesso discorso per le ciabatte da casa di quella grande artista della chef Annie Feolde. Le donne cucinano a casa e i grandi chef in genere sono uomini, ma all’enoteca Pinchiorri chi detta legge è una soave signora che si capisce nasconde sotto il suo vezzoso accento francese la capacità di comando di un generale di corpo d’armata. La cena era di rango e dunque la signora fece un’uscita di rito. Saluti e frasi convenzionali. Fresca di parrucchiere – con una vaga nota tacheriana nell’acconciatura – vestita con semplice eleganza, la signora generale di corpo d’armata ha raccontato la sua battaglia. Ad un certo punto perse le stelle Michelin. Ha impiegato anni per riconquistarle, ma ce l’ha fatta. Poi la guardo bene, dalla testa ai piedi e dei piedi alla testa e vedo le ciabatte. Non comode scarpe da casa, ma ciabatte-ciabatte da massaia per combattere meglio la battaglia delle stelle Michelin. E come fai a non perdere la testa se hai anche mangiato benissimo e bevuto magnificamente?

Mi torna in testa “Il talismano della felicità” di Ada Boni. Perché è un ricettario. Perché si parla tanto di economia della felicità, di ricerca della felicità e allora è più che giusto declinare il tema a tavola. Infine perché anche Concetta – la tata che circolava a casa di mia nonna – lo comprava e lo regalava quando si sposavano le mie zie giovani. Non credo abbia mai comprato altri libri nella sua vita. Il messaggio era più o meno: “E’ bene che in casa ci sia un modo per cucinare qualcosa di proprio molto buono, almeno ogni tanto”.

mercoledì 20 agosto 2008

Una pausa di due mesi in Brasile. Passando per Bahia. Le ragioni di Mario.

“Alla fine era proprio quello che ci voleva. Una pausa di due mesi in Brasile. E poi Bahia... Ho visto e fatto tutto quello che avevo in testa. Sai non sempre riesci a star dietro a quello che vorresti”. Maria mi guarda allibita. Non riesce a capire se la sto prendendo in giro o cosa. E io continuo. “E poi incontri interessanti, nuovi amici e dimensioni diverse. Una sana doccia mentale. Insomma mi sono proprio divertita”. Parlo seriamente e appassionatamente, mentre Maria è sempre più senza parole. “Scusa…ma non eri stata a Bruxelles? E poi sei tornata a Roma, mi pare”...

“Tutto vero”. Confermo. “Però la pausa in Brasile me la sono regalata ugualmente senza troppi problemi. E pensa che ero pure perplessa quando ho cominciato. Ero veramente mal predisposta dal titolo. Perché diciamolo tanto è carino il libro tanto non mi piace il titolo. E il libro è veramente molto carino...A Mario l’ho detto e gli ho anche chiesto come si può fare se si vuole entrare in contatto con il suo libro. Perché si può anche decidere di prendersi qualche giorno per stare due mesi in Brasile”. Maria ora sorride. “E allora – continuo io – gli ho mandato una mail per sapere se ha un sito, un blog, se lo regala solo a chi gli pare, se lo vende?”

Mario mi ha risposto che lo ha pubblicato – diventandone anche editore – con questo nuovo sito del gruppo L’Espresso:
www.ilmiolibro.it. Forse non si aspettava di trovare in me una vera fan. In ogni caso ha provveduto a piazzarmi qualche “consiglio per gli acquisti”. Il libro è bello e allora ecco le ragioni di Mario.

“Sostenitrici/ori,
ho deciso di pubblicare il mio secondo libro percorrendo una strada divertente e innovativa: stampandomelo da solo attraverso il sito
www.ilmiolibro.it .Il libro s'intitola "Cannella e garofano", sottotitolo: "Istantanee dallo Stato di Bahia e altre storie" ed è firmato dal sottodetto, Mario Balsamo.
6 RAGIONI PER ACQUISTARLO:
1) perché, OGGETTIVAMENTE (!), è un bel diario di viaggio in Brasile
"che miscela piccoli racconti, ordinari incontri straordinari, fascinazioni dei luoghi e indicazioni concrete su come viaggiare da slow traveller. Tutto questo partendo da una suggestione letteraria assai brasiliana: un sbilenco, improbabile inseguimento di Gabriela, la protagonista dell’insuperabile romanzo di Jorge Amado. Quella Gabriela che è anima profonda del Brasile, al profumo di garofano, dal colore di cannella".
2) per regalarlo ai vostri amici, parenti, perfetti sconosciuti e mostrare così che non abbiamo bisogno delle case editrici!!
3) per donarlo a persone care che abbiano momentaneamente perso il frizzante contatto con la vita e lo possono riacquistare attraverso un viaggio (virtuale e/o reale) in Brasile.
4) per potermi denigrare se non vi piacerà.
5) per portare avanti la vostra crociata: sostenermi nelle mie donchisciottesche iniziative.
6) per tutte le ragioni legate a un libro in generale:
a) leggere elasticizza la mente (così come viaggiare);
b) allunga la vita
c) allena la vista
d) sconfigge la noia
e) rallenta le corse
f) accelera la pigrizia...
QUINDI, COMPRATELO! Per voi, per regalarlo (adesso che il viaggio è di stagione, ma anche a Natale e a Pasqua, per compleanni, comunioni, battesimi e matrimoni, o per il prossimo ponte tra il 25 aprile e il primo maggio).

E' molto semplice: si va sul sito
www.ilmiolibro.it e ci si registra (in altro a destra c'è scritto "registrati": è una procedura, anche a tutela della vostra sicurezza). Siete in questa splendida community di appassionati di pagine scritte! A quel punto tornate nell'homepage, troverete lo spazio "Vetrina" e in fondo a destra un pulsantino rosso "Visualizza tutti i libri in vetrina". Cliccatelo.
Nella stringa del "cerca" inserite il titolo del libro: "Cannella e garofano". Avviate la ricerca. Vi apparirà la copertina del mio libro. Cliccatevi sopra. Cliccate "Aggiungi al cartello" e acquistatelo con carta di credito. Grazie!
[Le procedure per perfezionare l'acquisto sono oltremodo sicure, le provo da due mesi...). IL PREZZO, compresa la spedizione, è di euro 14,7 (inclusa la spedizione a casa vostra). Ricattatorio: la mia amicizia vale di meno? Pubblicitario: la vostra curiosità non arriva a 14,7 euro? Compratelo ai mezzi con qualcuno. Cattolico: se non lo comprate si abbatterà su di voi un immenso senso di colpa...Edonista: farete godere un amico (io)...SALUTI SMISURATI. MARIO BALSAMO”

Ancora Mozambico. L’isola di Ibo.

Metà luglio, la corrispondenza con Paola Rolletta è sempre divertente. Le scrivo. “Cominci a diventare davvero famosa. Mi sono trovata per puro caso a un’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio. Una cosa su “Italia e Romania: partnership, crescita e futuro in Europa”. Inizio a parlare con uno dei partecipanti, raccontando del più e del meno. Ovviamente arriviamo a parlare del Mozambico e del prode don Matteo. Il salto è breve. Tempo cinque minuti e arriviamo a te, la famosa Paola Rolletta. Don Matteo, intanto, resta inconoscibile. Ho sperato che mi fosse presentato, ma non è arrivato”. La risposta è come al solito con nuovi scenari. “Cara, sono appena arrivata ad Accra” - Accra, Accra, ma dove sarà mai Accra. E come prima cosa mi tocca di andare a vedere su google earth - “Sono qui al premio CNN Multichoice African journalistic award. Mio marito è tra i finalisti e io faccio un giro con Aids and media, dove parlerò di DREAM. Il mondo è piccolo! Davvero!” Ancora Mozambico. E i sapori di quei cibi. Come potrei non citare il libro di Paola “Cozinha Tradicional de Moçambique” sulla cucina mozambicana (http://www.criticaliteraria.com/9721054038)?

E mi torna in mente l’isola di Ibo. Nord del Mozambico, mare turchino e antiche costruzioni portoghesi che si sciolgono al tempo. Strade di città con la sabbia che copre l’antico acciottolato e ai lati vecchi palazzi. La grande chiesa nella piazza principale. I forti che incuranti del disfacimento controllano l’orizzonte. Le barche della gente di mare, le piroghe, le mangrovie. Solo qualche generatore e candele la sera. Niente gente di passaggio, ma due vecchi nell’antico forte continuano a lavorare l’argento per fare piccoli gioielli . Bracciali e collier semplici e complicati insieme. Devo averne ancora qualcuno in un cassetto.

A Pemba con Norma avemmo la fortuna di incontrare un pilota indiano con un piccolo aereo. Avevamo messo in giro la voce che ci sarebbe piaciuto andare sulle isole ma senza piroghe, barche o traversate di dieci ore. In più c’era il problema di trovare dove stare. A Ibo non c’erano alberghi e tutto funzionava secondo le regole dell’ospitalità. Insomma trovare un pilota indiano in quella zona quindici anni fa ti dava la certezza di essere in una botte di ferro, di poter andare ovunque al meglio. Stabilito il prezzo, il nostro amico ci caricò sul suo piccolo mezzo di trasporto insieme ad una cassa di whisky, suo regalo personale ad una coppia che ci avrebbero ospitato in una grande casa nella piazza principale di Ibo.

Norma ed io trovammo nuovi amici. Nella grande casa vivevano una pittrice di Maputo con il suo compagno mozambicano impegnato con non so quale organizzazione internazionale. Loro ospite una pittrice bianca anglofona zimbabwana di Harare, con una predilezione spiccata per i giovanotti neri locali. Ricordo che provvide anche a spiegarcene le ragioni – che non so più – e a presentarci l’ultimo rappresentante della categoria. Immagino pro tempore, un pro tempore molto rapido, visto che dopo due giorni era sparito. Per la casa lavorava buona parte del paese, perché oltre quelli che ricevevano stabilmente un compenso c’era sempre qualcun altro che veniva a vendere qualcosa o a offrire un servizio. E così c’era un orto e si poteva mangiare verdura, visto che veniva coltivata sotto le ferree regole del padrone di casa. Come dire potevi mangiarla e avere la certezza di sopravvivere. Ed è l’unica volta che mi consentii di magiare insalata in più di tre settimane. C’era pesce magnifico arrosto e pane fresco. Cene a lume di candela. Camere fresche e pulite. Niente da fare, se non andare in giro, leggere, chiacchierare con i padroni di casa e con tutti quelli che in un modo o nell’altro circolavano tra il giardino, la sala da pranzo e grandi spazi comuni.

Di tutto questo restano segni tangibili nella casa di Norma e in quella mia. Alle pareti abbiamo i quadri dipinti a Ibo dalle due artiste. Perché tornate a Maputo insieme alle nostre nuove amiche comprammo alcune loro opere. Molto diverse tra loro, per mano, sensibilità e tono. Eppure nulla riesce a rappresentare meglio Ibo di quei giorni. Almeno per noi.

sabato 19 luglio 2008

Prima della pioggia. Una mattina in Valtellina. L’iniezione di energia di andare in giro in elicottero.

“Non hai altro modo per essere lì. Prendi un elicottero all’aeroporto di Montichiari. Poi, visto che devi essere in serata a Roma, torni sempre in elicottero a Linate. Da qui prendi un normale aereo di linea”. Il mio viaggio di lavoro è presto definito. Quello che non mi avevano detto è quanto mi sarebbe piaciuto girare nei cieli con quella specie di utilitaria che è un elicottero. Perché un aereo, anche piccolo, ha qualcosa di nobile. Un elicottero – magari è anche più snob nella sostanza – ma standoci dentro ti dà un’idea di normalità. Ti senti come in una cinquecento. Sotto a distanza ravvicinata la terra. Intorno il cielo. Ma non quello lontano e sconosciuto, il cielo normale, quello dove volano gli uccelli piccoli.

Da Montichiari a Sondrio sarebbero dovuti essere 30 – 35 minuti, ma ci abbiamo messo di più perché abbiamo cambiato strada. In un primo momento si pensava di passare le montagne, ma il tempo era pesto, con troppe nuvole. Siamo scesi, passati per Lecco ed abbiamo imboccato la valle. Girare in elicottero è come seguire una mappa. In più c’è il sole o la pioggia, le case, i fiumi, i prati e gli alberi, le macchine sotto.

In aereo si deve seguire una rotta, in elicottero ci si muove a vista. All’andata il pilota aveva con se un navigatore, un collega con una normale carta geografica sulle gambe e una riga per le distanze. Una cosa molto artigianale, come quando io dico la strada a Gianfranco in macchina. Al ritorno da Sondrio a Linate chi guidava era solo. Siamo partiti che pioveva, ma conosceva talmente bene la strada che avrebbe potuta farla dormendo. “Da Sondrio a Linate si possono fare due strade. Noi abbiamo seguito il fiume. Si fa prima ed è più bello”. Il pilota del ritorno lo racconta come se parlasse delle strade intorno casa. Quelli che portano gli elicotteri sono un capitolo a parte. Hanno quest’aria da ex ragazzi, capelli un po’ lunghi brizzolati, avventurosi ma familiari.

Insomma il risultato è stato che tornata a casa ero talmente carica di energia positiva che non ho potuto far a meno di ripartire. Perché ero stanca ma troppo gasata, con tutta questa luce negli occhi e tutta quest’aria che ancora mi girava intorno. E allora con Gianfranco e la piccola siamo andati in campagna anche se era sabato notte. Lontani dalla città. Alla ricerca di un po’ di fresco e di aria profumata.

Poi lunedì apro il giornale e scopro che ho fatto un giro prima della pioggia vera. Maltempo, due morti. Valtellina isolata. Evacuate 250 persone. Ma quando io ero lassù era bellissimo. E nulla faceva immaginare ciò che sarebbe successo. Più o meno come nei libri di Matilde Asensi (http://it.wikipedia.org/wiki/Matilde_Asensi), una dei nuovi spagnoli che va tanto. Cominci ed è tutto molto reale. Poi piano piano prendi una strada che ti sembra normale, ma lascia molto presto il campo del possibile. Non sai nemmeno come accade e sei quasi nel fantasy. Dopo un necessario percorso iniziatico, con “L’ultimo Catone” arrivi a incontrare i guardiani della Vera Croce, che vivono pacifici e felici per i fatti loro. “Nell’origine perduta” sei nella foresta amazzonica sulle tracce dell’antica lingua perfetta che ha una struttura simile al linguaggio informatico. In “Tutto sotto il cielo”, invece, trovi la tomba di Qin Shi Huangdip. E nulla faceva immaginare ciò che sarebbe successo. E che tu ci saresti stato al gioco.

domenica 13 luglio 2008

Gruppo di amici in un interno. A Tuscania

“La mia mano è troppo corta”. Markus ride e allunga il braccio per leggere il foglio. Passano gli anni e ha bisogno di allontanare l’immagine per vedere bene. Piccoli e grandi segni marcano il passare del tempo. Siamo qui a Tuscania Markus e Silpa Maria, Marco e Tina, Gianfranco ed io, seduti al fresco a mangiare in una torrida giornata di luglio. Con noi le nostre cinque piccoline. E’ il segno più evidente del trascorrere delle cose.

“In fondo dipende da me se siete tutti qui”. Tina, pestifera rossa, rivendica i suoi meriti. “Te la ricordi quella festa da Silpa? Saranno passati quindici anni”. Non c’erano bambini allora. Silpa – finlandese come Markus – viveva a Roma e aveva organizzato un party nella sua casa alla Garbatella. Markus era già in circolazione. Poi sono arrivati nel corso degli anni Gianfranco e Marco. E piano piano le piccole.

“Come potrei non ricordarmi. Cementammo l’inizio della nostra amicizia con la pepper vodka”. E Silpa: “I made it myself”. Nel frigo di Silpa, in un barattolo di vetro in un liquido trasparente come acqua galleggiavano granelli di pepe. Furono riempiti bicchierini piccoli fino all’orlo. Con una secca frase tutti buttammo giù il contenuto. Una, due, tre volte. L’effetto fu devastante, ma il patto forte e chiaro. Perché se sopravvivi a riti iniziativi più adatti al circolo polare che a una dolce primavera romana è probabile che qualcosa resti.

Da allora molte cosa abbiamo fatto insieme. Con Markus e Silpa Maria in Finlandia e a Roma. Con Marco e Tina a Torino e in Liguria. Ci siamo scambiati visite, pensieri e risate. “Ma se scrivo qualcosa volete usi uno pseudonimo?” “Usa pure il mio nome – dice Marco – ti fai il doppio dei problemi”. Ma si capisce che apprezza.

Soprattutto ci siamo aiutati a vedere altre cose. Mi ricordo il divertimento nello scoprire Paasilinna Arto di “Piccoli suicidi tra amici”. Perché da noi a nessuno verrebbe di ironizzare su reiterati e falliti tentativi di suicidio. E il riso carnaroli l’ho scoperto con Tina. Meglio il merito è del papà di Tina. E non è lo stesso prendere un riso invece di un altro.

lunedì 7 luglio 2008

Moçambique 2. Capulane da Maputo a Pemba

“Bello! Però lavoro per SAVANA, il primo settimanale mozambicano indipendente. E poi faccio l'ufficio stampa per DREAM, il programma di lotta contro l' HIV/Aids della Comunità di Sant' Egidio (http://dream.santegidio.com/Homep.asp?SelectLingua=EN&Curlang=IT). Se vuoi ti mando un paio di articoli che ho scritto per SAVANA, di quelli turistici carini. Anzi, siccome SAVANA ancora non ha un sito, ti mando il link di un blog che ne ha riprodotto qualcuno. (http://estradapoeirenta.blogspot.com/2007/04/lago-niassa-um-paraso-perdido.html
http://estradapoeirenta.blogspot.com/2007/10/bala-de-canho-e-os-olhos-de-betty-boop.html)”. Paola mi risponde e mi apre nuovi ricordi mozambicani.

Tra le cose che ci chiedevano sempre c’era se conoscevamo Padre Matteo Zuppi. Naturalmente essere di Roma non vuol dire conoscerlo, ma questo a Maputo era incredibile. Padre Zuppi è la pace in Mozambico. Ora è il parroco di Sant Maria in Trastevere, ma ha seguito in prima persona i negoziati di pace. Paola mi ricorda che “la guerra civile è finita con la firma degli accordi di pace a Roma il 4 ottobre del 1992”.

E poi la bellezza del Paese. Da Maputo andammo a Pemba, fermandoci a Beira e Nampula. L’aereo era una carretta e viaggiava a pieno carico. All’andata mi ricordo avevo vicino una ragazza che mostrava a tutti il diploma da infermiera preso a Cuba. Da mangiare pane e frittata. A Pemba stavamo da Babu, l’unico posto dove potessimo fermarci. Bungalow sulla spiaggia bianca e sottile come borotalco. E poi mi ricordo il mercato nero di Pemba. Comprai anche un po’ di quelle stoffe che usavano tutte le donne.

Ma preferisco dare la parola a Paola. “Dal nord al sud del Mozambico non c’è donna che non usi la capulana. La usa per vestirsi, per pulire e per portare i bambini sulle spalle, la usa come tovaglia e come tenda. O quando cambia di casa o quando viaggia, la usa per trasportare gli oggetti. La capulana non è usata solo dalle contadine, come si potrebbe pesnare. Le donne di città, che in genere si vestono all’occidentale, la usano sempre in casa o nelle cerimonie familiari. Le altre donne, in Africa, usano lo stesso tipo di stoffa rettangolare di cotone e, ultimamente, di fibra sintetica, con grandi motivi stampati, incluso facce di presidenti, e soprattutto con colori sgargianti. Donne e ragazze coperte di stoffe colorate, danno vita e colore alle strade di terra battuta che rompono il paesaggio monotono della savana o nelle strade e mercati rumorosi e disordinati delle città africane. In altri paesi questi pezzi di stoffa possono avere altri nomi. In Kenia si chiamano kanga. In Africa occidentale, in Congo o in Senegal, si chiamano pagne. Molte lingue mozambicane hanno un nome differente per questi rettangoli di stoffa. Ma capulana è il nome più usato, dal nord al sud, dall’est all’ovest del Mozambico. Oggi il nome fa parte del lessico della lingua portoghese ma non si conosce con certezza la sua origine”.

Un paio di queste pezze di stoffa sono normalmente in circolazione a casa mia e svolgono le funzioni più varie. Paola Rolletta, invece, ci ha scritto un libro. Una signora sudafricana che lo vende sulla rete (
http://www.clarkesbooks.co.za/artbooks/browse.asp?category=46&offset=10).

venerdì 27 giugno 2008

Moçambique 1

“Sono stata qualche giorno a Roma, ma neanche ho telefonato tanto ero di corsa. Qui tutto bene. Sai che sono stata un sacco male a ottobre? Sono stata operata d'urgenza a Napoli, al Pellegrini Vecchio. Sono stata trattata benissimo. Qui tutto bene, per il momento. Con tutti i problemi di sempre, quindi direi tutto normale”. Paola va veloce. E’ giornalista di Tvcabo Moçambique a Maputo. Lavora e vive in portoghese da tanto tempo che ha raggiunto il diritto ad un pezzo di anima lusitana. Ovviamente i suoi standard sono diversi. Mentre in Italia si parla di Napoli come fosse l’inferno, per lei l’Ospedale Pellegrini Vecchio è un luogo dove sperare di essere curati. Le rispondo: “Bello sentirti. E contenta che tu stia bene, nonostante le difficoltà di ottobre. Questa mattina ho parlato di te qui a Bruxelles, dove sono per in breve periodo. Ti scriverà una persona che vuole consigli per venire in vacanza in Mozambico”.

Da poco avevo ricevuto un suo messaggio con cui chiedeva “participe do seu grupo de amigos no Plaxo Pulse (Para aceitar este convite, vá para:
http://pulse.plaxo.com/pulse/invite?i=27578059&k=988480003&l=pt
Obrigado! A equipe Pulse)”. Avevo conosciuto Paola molti anni prima. Anche prima che andasse a stare a Maputo. Una sera a Roma ci eravamo trovate con amici in un locale ad ascoltare musica mozambicana.

Grande magnifico Paese, il Mozambico. Me lo ricordo nel 1994 con Norma. La guerra era finita da poco e giravano caschi blu con facce improbabili di paesi incredibili. Miseria, ma gente allegra Dio l’aiuta. Durante la guerra si diceva fossero spariti tutti gli animali selvaggi. Mangiati. Compresi i leoni. Tranne quelli che erano riusciti a passare il confine e a fuggire in Sud Africa. Niente luce elettrica, ma dove c’era un generatore funzionava sicuramente una discoteca. Radio Moçambique era l’unico posto dove si trovavano le cassette di musica. E la gente ti offriva opere d’arte bellissime.

E poi la cosa più incredibile: il colore della tua pelle contava meno di niente per definirti. Di là, in Sud Africa, un bianco stava da una parte e faceva certe cose. Passavi di qua, in Mozambico, e non dipendeva più dal colore della tua pelle chi tu fossi e a quali regole ti dovessi attenere. Non voglio dire che non contasse, ma non per definire da dove venivi, chi eri, dove andavi.

Avevo detto a Paola che ero tornata dal Mozambico con i colori negli occhi e una valigia di dipinti, batik, collane di semi, bracciali di legno, statuine. Io, che in genere non ho grandi bisogni, avevo comprato di tutto, per portare con me un pezzo del Paese. Lei, che non c’era mai stata, ci ha messo piede e ci è rimasta.

sabato 21 giugno 2008

‘Clementine’ di fine ‘800 a cena e filigranes a colazione

“Caccia ‘e clementine”. Mio padre è controluce, mentre il sole ancora alto entra nella stanza. Serata in famiglia a Bruxelles. Mio padre e mia madre sono arrivati da poche ore. Nove e mezza di sera ed è come se fossero le sette. Il giorno non finisce mai. Abbiamo appena finito di cenare e mio padre punta ad un dolcetto. “Si chiamavano ‘clementine’ a casa mia le cose buone offerte ad una festa”. Ed io: “Scusa ma di che anni parliamo: 1920, 1930?” “No, il modo di dire è nato molto prima. Fine ‘800. Mio padre era dell’’80. Quindi certamente prima del 1900. Nel palazzo viveva un monsignore, che veniva accudito da una sorella, Clementina. Il giorno del suo compleanno invitava tutti i vicini. C’era sempre un momento in cui erano presenti tutti gli invitati e il monsignore diceva: ‘Clementì, caccia i complimenti’. Il passaggio da complimenti a clementine è stato breve”.

A pranzo, invece, incontro Paul, che lavora alla Commissione. “Sai per me essere tornato qui a Bruxelles e lavorare in questo posto è un po’ come essere tornato a casa o a scuola. Era così quando ero bambino alla scuola europea. Lingue diverse, persone diverse, provenienze varie, ma uno stesso minimo denominatore comune. Poi sai era il posto dove lavorava mio padre. Tante cose ritornano. Certo non è più come negli anni ’70. Ma già allora si diceva che il meglio era essere stati parte di questa macchina negli anni ‘60”. Paul non sa se si fermerà o cercherà nuove avventure professionali.

Vuole farmi conoscere un luogo speciale. “Voglio portarti in posto dove vado sempre. E’ aperto tutti i giorni dell’anno, anche a Natale, e puoi dare un occhiata a tutto quello che vuoi comodamente seduto in poltrona”. Insomma andiamo da Filigranes. Potete dare uno sguardo anche voi (
http://www.filigranes.be/media/visite360/index.htm). Metri quadri e metri quadri di libri, ma anche poltrone, tavolini e un pianoforte. Il trattamento è super. Si può prendere quello che si vuole – un quotidiano o 10 libri – e stare tranquillamente seduti in poltrona a leggere. A metà strada tra una libreria, una biblioteca ed un caffè culturale. “Sai devi fare i conti con la pioggia – dice Paul - quando è brutto tempo non c’è nulla di meglio che rifugiarsi qui dentro”.

Intanto fuori il rumore dei claxon non smette. Dopo i pescatori della settimana scorsa, oggi la pacifica Bruxelles è bloccata da una nuova manifestazione contro il caro carburante. Questa volta sono gli autotrasportatori, i taxisti e chi più ne ha più ne metta. Il centro è circondato. Camion e auto portano avanti una dimostrazione pacifica ma rumorosa, procedendo a passo d’uomo sulla strada che segue il tracciato delle antiche mura.

Per la categoria i libri che decisi di non comprare e di non leggere – almeno per ora – inserisco “La sofferenza del Belgio” di Hugo Claus. Avevo pensato di portarlo qui con me, visto che è considerato un’occasione da non perdere (
http://www.ibs.it/code/9788807015526/claus-hugo/sofferenza-del-belgio.html). Stavo per comprarlo quando mi è capitata tra le mani una di quelle analisi per addetti ai lavori con lo stato delle cose in vari Paesi europei. Nel Belgio veniva fotografato un alto indice di felicità. Ho preferito lasciar perdere la sofferenza. Per il momento.

martedì 17 giugno 2008

Anversa la domenica. Un registro del nord per i pensieri

“’E’ più grande del cimitero di Vienna, ma molto più tranquillo’. Si è sempre detto del Lussemburgo”. Paul sorride mentre parla. Sabato sera a Bruxelles, a casa di Norma. Metà giugno il giorno dura a lungo. La città è bellissima dalle grandi vetrate al 12° piano di un bel palazzo borghese. Siamo solo noi: Norma, Paul, Gianfranco, io e la piccola. Si beve, si mangia e si parla del più e del meno, mentre va sullo schermo un cartone cattura bambini. Che Norma debba andare in Lussemburgo domani ha scatenato tutta una serie di storielle.

Noi abbiamo in programma di fare un salto ad Anversa. Un salto davvero, visto che con mezz’ora di treno siamo al centro della città. Il tempo cambia costantemente: sole, pioggia, vento e poi di nuovo sole. La stazione ci accoglie simpatica. La vecchia costruzione fa corpo unico con sezioni nuove ed efficienti. Scale mobili di collegamento tra piani creati dalla fantasia e dalla modernità. Anversa la domenica è un grande mercato che riposa, pronto a ripartire l’indomani. Si vede che ha sempre avuto un’anima da città-mercato. Il cuore antico è il Grote Markt, che conserva assonanze con mercato, circondato dai palazzi delle arti e dei mestieri. E poi Anversa è la città dei diamanti, ma la domenica anche questa parte è tranquilla.

Mangiamo una cosa ad un caffè, basandoci sul supporto prezioso del cameriere, perché qui nelle Fiandre non basta la fantasia più sfrenata per capire il menu in fiammingo. Poi, visto che ogni promessa è debito, ci tocca una lunga visita allo zoo e all’acquario. Si vede che deve essere stato uno degli zoo più antichi e famosi. Certo ora quello che emerge forte è l’idea di sofferenza che viene dalla pantera che cammina su e giù in pochi metri per tutta la vita. Con noi a vedere gli elefanti una famiglia di ebrei ortodossi. Il padre ha il cappotto nero ed il cappello e tenta di governare con poco successo 5 pestiferi bambini. Sarà parte della comunità che commercia in diamanti fin dal 1500. Poi una puntata a vedere la via d’acqua. E’ tornato il sole ed è bellissimo. C’è un’aria comune di acque del nord.

C’è qualcosa che unisce le cose del nord, anche le considerazioni. Insomma c’è un registro del nord dei pensieri e delle emozioni. Perché certo il futuro, che è già oggi, vuol dire essere qui ma poter essere lì. Ciò non toglie che essere qui non è lo stesso che essere lì.

E così nella serie di Alexander McCall Smith dedicata Isabel Dalhousie, filosofa di Edimburgo e investigatrice dilettante, il tono cambia completamente rispetto ai libri africani. Perché se vuoi essere felice in Scozia devi capirlo davvero il piacere sottile della pioggia. E i pensieri viaggiano su onde di una lunghezza diversa.

mercoledì 11 giugno 2008

“Campagne” ed ecomostri del nord. I racconti d’Africa continuano a scaldarmi il cuore

“Pronte a partire per questa piccola “campagna”? Da quanto non facciamo un giro insieme”. Norma mette in moto la sua vettura e si parte. Da Bruxelles andiamo verso nord, a vedere il mare. Destinazione Knokke. Non ce lo siamo detto ma è evidente che ci aspettiamo una cittadina di mare con vecchie case di famiglia e poi, poco lontano, dune selvagge e un mare cupo ma fascinoso. E’ tanto che non riusciamo a ritagliarci il tempo per una piccola “campagna”, che nel lessico dell’amicizia con Norma è qualcosa che ha in se il movimento e l’avventura. Una “campagna” può durare mesi o una mezza giornata, può essere dietro l’angolo oppure richiedere decine di ore di aereo. Abbiamo fatto “campagne” leggendarie, come quelle in Mozambico o in Namibia. Anche giri di una mezza giornata possono comunque darci il gusto di andare.

Inizio giugno in Belgio e un tempo da lupi. Piove e saremo a 12 gradi. La strada va e noi chiacchieriamo del più e del meno. Passano Gand e Bruges e ci avviciniamo al mare. Knokke è il peggiore degli incubi. Un ecomostro in forma di paese. Le file di belle vecchie case sono separate dal mare da enormi alveari di cemento che cancellano l’orizzonte. Il mare non si vede e forse in realtà non c’è. Bisogna immaginarlo. Eleganti boutique e negozi più a buon mercato si susseguono senza sosta. Ma non c’è l’ombra di una duna, di un filo d’era e di uno spazio aperto. Tutto annientato dal cemento. Fuggiamo verso spazi amici. Ci rifuggiamo per riprenderci tra le dolci strade di Bruges. Cioccolato artigianale e qualcosa di buono da bere ci ritemprano da questa piccola “campagna” nel girone dell’orrido.

Perché diciamocelo gli ecomostri sono ecomostri ovunque. Al sud come al nord. A casa come in altri Paesi. E comunque gli ecomostri degli altri non hanno veramente nulla da invidiare ai nostri.

Una “campagna” riparata dalla bellezza di Bruges e di Gand. Quasi una gita fuoriporta salvata in extremis. Mi tornano alla mente i bei viaggi in Africa con Norma. Le strade rosse che non finivano mai, abitate da auto con bianchi e camminate da neri di giorno e di notte. Le estati australi con il sole luminoso e l’aria fresca. La gente. Poi passi un confine e quello che è determinante da una parte, come il colore della tua pelle, diventa quasi irrilevante perché conta un’altra cosa, come per esempio chi è il tuo Dio.

Leggo sul Corriere della Sera che il Botswana è uno dei 13 Paesi in pieno miracolo economico. E penso alla cara Precious Ramotswe, signora di costituzione tradizionale, detective titolare della No. 1 Ladies' Detective Agency di Gaborone. E’ quasi un’amica la protagonista della serie di libri di Alexander Mc Call Smith, professore universitario scozzese che continua ad essere un africano vero. Le storie di Precious, della sua casa di Zebra Drive e del suo mondo, continuano scaldarmi il cuore.

sabato 31 maggio 2008

Muratori. E scrittori italiani d’altrove

“Mancia, mancia”. Petteri lo dice solo ai due ospiti muratori polacchi. A noi altri offre in silenzio la carne che ha appena finito di cuocere sul barbecue. Serata calda, estiva a Bruxelles. Siamo ospiti di Petteri e Renata. Mangiamo in giardino mentre i bambini giocano, pasticciando con l’acqua, la terra e le parole. Non so perché proprio “mancia, mancia”. Ma per me il suono rende. Petteri è un grande padrone di casa. D’altra parte è finlandese. Secondo me i finlandesi sono veri professionisti nell’arte di ospitare e in quella di bere. Come dire, se si è ospiti di un amico finlandese meglio essere buoni bevitori per apprezzare davvero.

Insomma serata perfetta. E poi c’è Renata – italiana di Sezze Scalo e moglie di Petteri – che aggiunge la giusta dose di Mediterraneo. Intorno alla tavola, oltre ai padroni di casa e agli invitati normali come noi, special starring i due muratori polacchi. Sono graditi ospiti full board di Petteri e Renata, ultima spiaggia per avere un tetto rifatto a mestiere. Seduti all’estremo del tavolo, bevono professionalmente e parlano tra loro. Molto distinti, i due muratori polacchi. Sarà il tratto, ma spesso i polacchi hanno una vaga aria da principi decaduti. Petteri e Renata sono dovuti ricorrere a loro, chiamandoli dalla Polonia. “Abbiamo avuto un sacco di problemi con questi lavori e allora abbiamo deciso di chiamarli”. Renata la racconta così la storia di questa coabitazione. Muratori, muratori. C’è un filo rosso che lega i muratori del mondo. Per cominciare vengono spesso da altrove.

Expo 2015 a Milano. Ci lavoreranno migliaia di muratori che verranno da altri Paesi. Uno dei problemi sarà come gestire questo flusso, cominciando dall’impatto con le popolazioni indigene. Un’altra questione sarà cosa fare se chi viene volesse poi restare.

E poi i muratori d’oggi sono uguali e diversi da quelli di ieri. Me la ricordo ancora l’inchiesta di un po’ di tempo fa sull’uso della coca per lavorare di più. La droga borghese per eccellenza diventa mezzo per essere muratori d’assalto.

E ancora, muratori italiani ma d’altrove. O anche muratori di passaggio da una vita ad un’altra. Come uno dei protagonisti di Alan Custovic nel suo libro “Eloì, Eloì”. Alen d’altra parte è uno scrittore italiano ma bosniaco. Avevamo collaborato per motivi di lavoro. Avevamo parlato molte volte, ma non ci eravamo mai scambiati idee che non fossero legate al dato professionale. Poi un giorno trovo la sua mail. “Qui Alen Custovic, giornalista del Metropoli. Ti volevo comunicare che lo scorso inverno, con il mio primo romanzo, ho vinto un premio letterario”. E mi allegava anche qualcosa (
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=222546 ) perché potessi farmene un’idea. Compro il libro e lo sto leggendo. Prima impressione: profondo e forte, bosniaco e milanese. I muratori italiani e d’altrove abitano molte sue pagine. Ma c’è molto di più. Il coraggio di riconciliarsi e la forza di credere.

lunedì 26 maggio 2008

Leggende di famiglia e Storia d’Italia. Parabita e il brigante Lo Sturno. Una guerra civile dimenticata.

Mio padre parla piano. “Quando ero bambino a casa mia si diceva sempre che noi avevamo radici anche a Parabita, in Salento. In realtà dalle ricerche di tuo fratello non risulta. Devo dire che forse un collegamento con la Puglia lo abbiamo. Almeno secondo Alfredo - te lo ricordi vero? - quel mio cugino che ha scoperto il paranormale e le sedute spiritiche dopo una vita regolata dalla logica. In una delle sue sedute ha saputo che uno dei nostri avi era un cardinale di quella che oggi si chiama Manduria. Effettivamente si è poi scoperto che esiste un ritratto di questo personaggio con evidenti richiami alla nostra famiglia. Insomma se ti trovi in Salento fai un salto a Parabita e dimmi che ti pare”. Mio padre, al solito, sintetizza in poche battute quattro o cinquecento anni di storie e leggende familiari. In ogni caso trovandomi in Salento a fine a aprile non ho potuto fare a meno di andare a Parabita.

Una scoperta. Un borgo nobilissimo, un castello, palazzi ricchi ed eleganti, vicoli stretti e mura bianche. E poi, alla ricerca di conferme per evanescenti storie familiari, in un antro di un antico palazzo scopro il laboratorio del professor Aldo D’Antico. E’ un piccolo centro di studi e di ricerche. D’Antico avrà una settantina d’anni e l’energia intelligente di chi non si placa. Il professore ha messo su una piccola biblioteca e con l’aiuto di alcuni ragazzi si impegna per valorizzare la ricchezza culturale locale. Mi informa che effettivamente c’è un’antica famiglia con un cognome simile al mio. E poi c’è anche un magnifico palazzo - di cui il professore ci tiene a dirmi si vende il piano nobile per una cifra a suo avviso ragionevolissima – ed anche una masseria fortificata acquistata da poco da un forestiero.

Metto insieme tutti i documenti che darò a mio padre e per me finisce lì. Gianfranco invece stabilisce un contatto ancora più ricco di suggestioni. “E questo cos’è, professore?” Ha preso in mano un piccolo libro a firma Aldo D’Antico. “E’ la storia di Lo Sturno, brigante e galantuomo. Era arrivato ad essere sottufficiale dell’esercito borbonico, non poco per un contadino venuto dal nulla. All’arrivo dei piemontesi si dà alla macchia, continuando a vestire la divisa. Molte le avventure e i colpi di mano, ma non ha mai ucciso né praticato le regole della violenza spietata. Alla fine viene preso. Sette anni di galera e uno ai lavori forzati. Scontata la pena, poco prima di essere liberato, viene trovato morto. In genere era questo il modo per liberarsi dei briganti che nonostante tutto riuscivano a sopravvivere. Una buona dose di veleno alla fine della condanna e la questione era chiusa. E poi c’erano le brigantesse. Ma questa è un’altra storia”.

Andiamo via e Gianfranco ha avuto in regalo il piccolo libro. Le storie di briganti lo hanno sempre colpito. “E’ stata una vera guerra civile – mi dice – una tragedia misconosciuta e dimenticata. Non ho le idee chiare di come sia andata qui in Salento, ma per esempio in Lucania ne hanno massacrati veramente tanti. Una storia sconosciuta e nascosta”. E mi viene in mente il bel libro di Gaetano Cappelli, ‘Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo’, dove quell’arpia della moglie del protagonista riesce a raggiungere il successo con storie di briganti.

A casa mia non si è mai parlato troppo di briganti, ma si è sempre saputo che noi in quella storia eravamo dalla parte di chi ha perso. Anche dei briganti. Il trisavolo Francesco, quando tutto era perduto, provò senza successo un colpo di stato a favore dei Borboni. Almeno credo. Chiedo conferma a mio padre, che precisa “il tuo trisavolo Francesco, già avvocato del Re (Dio guardi!), dopo l'invasione garibaldese non "tentò un colpo di stato" (sarebbe stato un po' troppo!) ma partecipò alla congiura legittimista del barone Cosenza. Per questo fu anche arrestato e imprigionato nelle carceri di San Francesco a Napoli”. Il trisavolo Francesco guarda tranquillo il trascorrere dei nostri giorni dalla parete del salotto dei miei genitori. E ci tiene compagnia.

venerdì 16 maggio 2008

Phineas e Ferb – Dieci minuti di cartoon con la piccolina per star contenti tutta la mattina

“Dai mamma vieni, sta cominciando. C’è la puntata dell’esverno, quella in cui riescono a creare montagne di granatina per avere il meglio dell’inverno in estate. Non te la puoi perdere (http://video.aol.com/video-detail/phineas-and-ferb-swinter/234624101)”. “Arrivo. Sto preparando la colazione. Appena è pronto il caffè sono da te”. Mattina, 7,30, mentre nelle altre case si corre noi ci regaliamo almeno dieci minuti tutti per noi. Prima di uscire la piccola ed io guardiamo insieme una puntata di Phineas e Ferb. I nostri eroi sono due geniali fratelli messi insieme dal destino di famiglia allargata. Il più piccolo, Ferb, è inglese e passa le vacanze con Phineas, vero leader folle, e con Candice, la sorella adolescente che punta a far scoprire sul fatto i due ragazzi senza mai riuscirci. Poi c’è Perry, l’animale domestico dei nostri due amici, che è un ornitorinco dalla doppia vita. E’ infatti un agente segreto che combatte senza esclusione di colpi contro il perfido scienziato Dr. Doofenshmirtz. Completano il quadro la madre, il padre e Isabella, la vicina di casa che è a capo delle Fireside Girls, un gruppo di ragazzine pestifere.

Phineas e Ferb hanno avventure travolgenti (www.divertimento.it/articoli/2008/01/31/phineas-e-ferb.1643813.php - 55k). Riescono a costruire montagne russe altissime, a diventare pop star in una notte, a costruire una spiaggia nel giardino di casa e a viaggiare nel tempo. A questo si aggiungono le mirabolanti vicende di Perry e il Dr. Doofenshmirtz. Insomma ci fermiamo a goderci lo spettacolo. Da qualche giorno anche Gianfranco si unisce a noi. Ha scoperto di avere una vera passione per lo scienziato pazzo e per Perry l’ornitorinco agente segreto.

A proposito di ornitorinco, vedo che c’è grande interesse per questo animale – chimera. Certo è strano parecchio. Ha la pelliccia, allatta i piccoli ma depone le uova, ha le zampe al lato del corpo come un coccodrillo, il becco di un’anatra ma morbido e flessibile, la coda di un castoro e uno sperone velenoso sulle zampe di dietro. E così è normale che la rivista Nature gli dedichi un articolo con i risultati di uno studio con cui è stato verificato come sono mixate le caratteristiche di rettili, uccelli e mammiferi. Non mi sarei però mai aspettata che il quotidiano Repubblica gli dedicasse una pagina intera. Non sarà che Perry sta lavorando per i suoi?

In ogni caso, tornando a Phineas e Ferb, ormai un po’ di tv prima di uscire la guardiamo in tre. Il bello è che ci divertiamo davvero. Un’iniezione di buon umore che ci portiamo dietro tutta la mattina insieme alle canzoni della puntata. (per esempio
http://video.aol.com/video-detail/phineas-and-ferb-gitchi-gitchi-goo-i-love-you/132243003).

Nel tentativo di trovarci anche una morale ho detto alla piccola che i due ragazzi riescono a fare tante cose eccezionali perché d’inverno studiano un sacco di matematica. Per esempio le ho fatto vedere un bel libretto sulla magia dei numeri – Il mago dei numeri di Hans M. Enzenberger - per allettarla. Le ho detto che è ancora troppo piccola per leggerlo. Spero di riuscire ad affascinarla. Cerco anche qualcosa di ancora più divertente per giocare con la matematica. Poi conto molto su Phineas e Ferb.

martedì 6 maggio 2008

Fatto in Cina? No a Napoli

“Simone sempre senza scarpe… Vuole giocare con sorella.” Ed io “Fa bene. Ai bambini fa veramente bene camminare scalzi.” Simone è un piccolo ercolino cinese di tre anni o poco più. Scorrazza pacifico a piedi nudi nel negozio di scarpe dove sua madre sta alla cassa, serve, organizza la merce. Siamo entrati tutti e tre: Gianfranco, la piccola ed io, perché Simone è riuscito a convincerci. Il suo obiettivo è giocare con la piccola. E la madre “Simone vuole giocare con sorella e palla”.

E’ una donna simpatica la madre. Avrà trent’anni. Parla poche parole di italiano, ride spesso ed è un mago nel farsi capire. Riesce a comunicare in maniera fantastica con un nulla. Continua a chiamare la piccola “sorella” parlando con Simone. Lo dice bene, in maniera giusta. Come lo dicono le donne in Africa. O come al Sud i bambini dicono zia. “Sorella” è un modo normale per definire una bambina di sei anni per un piccolino di tre.

“Quasi quasi prendo questi sandali”. Gianfranco ha trovato qualcosa che può interessargli. “Quanto costano?” “O poco. Solo 14 euro.” “Ma dove sono fatti? In Cina?” “Cina? No, fatti a Napoli.” La risposta della donna è accompagnata da un’espressione del tipo: “Ma come ti può venire in testa fatti in Cina”. Napoli, poi, è detto come se fosse casa. Mi era già capitato ad un banco di indiani. Il copripiumino era bellissimo. L’aria d’oriente era forte. Fasce di stoffa rosso scuro si alternavano con quelle d’oro cupo. Anche in questo caso avevo chiesto: “Fatto in India?” E la risposta era stata “Ma no, fatto a Napoli”. Perché diciamocelo Napoli è una delle grandi città di Cindia, il mitico Paese che ha in sé la forza della Cina e dell’India.

La donna ha un’aria veramente simpatica. Guarda la piccola e mi chiede: “Quanti anni? Quanto alta?” Ed io “Ha sei anni, non ho idea di quanto sia alta”. Dev’esserci qualcosa che vuole scoprire perché mi chiede: “Quanto porta di scarpe?” “Questo lo so, porta 34”. E lei “Allora più alta di mia figlia. Anche lei sei anni. Non vedo da quattro”. E così ha lasciato a casa con sua sorella una figlia. Aveva solo due anni quando è andata via e non la vede da quattro anni. Non sa quando potrà riabbracciarla. E’ una donna allegra e forte. Racconta tutto questo mettendo a posto una scarpa, fermando Simone che si sta arrampicando su di una pila di scatole e servendo altri clienti. “Tu solo questa figlia?” “Sì solo questa”. “Devi fare altro”. Parliamo di figli e di scarpe. Normalmente. Gianfranco compra quello che ha scelto. Poi tra le proteste di Simone andiamo via.

Chissà quanto devo aspettare per contare come in UK su di una voce autoctona di altrove. Magari su di uno scrittore cino-napoletano. Forse poco. Mi piacerebbe leggere il libro di Simone e il racconto della sua infanzia nel negozio di scarpe. Ho appena finito Turismo di Nirpal Singh Dhaliwal. Da leggere. Divertente e intelligente. Lui è un vero scrittore inglese. Che sia anche indiano non intacca la sua britannicità. Il libro è pieno di sesso. Ma più Lawrence che Kama Sutra. O forse il Kama Sutra visto da Lawrence.

martedì 22 aprile 2008

L’invasione degli ultrastorici – i padri pesano sui figli e allora è meglio farci i conti

Centinaia di migliaia di contatti. Una potenza di fuoco notevole sulla rete. E non è un sito di moda, di shopping o di gossip, ma di storia. Il blog di Giovanni Fasanella a cura di Alice Avallone, www.lastorianascosta.com , è la prova che qui ed ora è in atto l’invasione degli ultrastorici. Insomma centinaia di migliaia di persone si occupano di storia. Insospettabile.

Poi quando un pensiero comincia a farsi strada si leggono cose che prima non si sarebbero nemmeno viste. Così, noto sulla prima pagina del Sole 24 Ore che la storia stravince in libreria. Nel 2006 sono stati pubblicati 61mila libri, di cui il 61% novità. A trainare la produzione sono state le ristampe (+7%) e i libri per ragazzi(+15%). Tra i generi più prodotti, dopo i romanzi e gli altri testi letterari moderni, i libri di storia, con 4.441 titoli. Ma chi l’avrebbe mai detto.

Ma forse i libri di storia e il blog di Giovanni Fasanella fanno parte di un unico grande capitolo. Quello per cui i padri nel bene e nel male pesano sui figli. E allora nasce spontanea la voglia e la necessità di farci i conti. Per restare a Giovanni Fasanella, il riferimento va a “Guido Rossa mio padre”, il suo libro-testimonianza su Sabina Rossa. Perché prima di essere un’insegnante, prima di diventare senatrice, Sabina è figlia di Guido Rossa, l’operaio comunista ucciso dalle BR.

Non c’è niente da fare i padri ricadono sui figli. Su Sabina Rossa come su Anna Negri, regista e figlia di Toni Negri. Se tuo padre è stato uno dei fondatori di Potere operaio e poi uno dei leader di Autonomia operaia, considerato la mente occulta del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, tu puoi fare la regista e avere un film in programmazione nelle sale ma continueranno chiederti soprattutto di lui. E allora nelle interviste per presentare il film “Riprendimi” alla fine del gioco arriva sempre la domanda “e suo padre?”, immediata la risposta di Anna Negri “spero un giorno si chieda a lui di me e non a me di lui” ed anche “non ho mai letto nulla di mio padre Toni Negri. Non voglio essere identificata con lui”.

Insomma l’invasione degli ultrastorici deve avere qualche connessione con questo bisogno di fare i conti con i padri. Gianfranco dice “scusa ma sui figli non ricadono anche le madri”? Certo, ma quella è un’altra storia. Almeno credo.

giovedì 17 aprile 2008

Fenomenologia della bruttezza libresca: teoria e tecniche non di massa per disfarsene - ossia cosa fare se un libro fa proprio schifo


Serge Brussolo: Peggy Sue e gli Invisibili. Comincio dal nome e cognome dell’autore, Serge Bruscolo appunto. E poi, per non lasciare nell’incertezza il lavoro a cui mi riferisco, scrivo anche il nome della serie, Peggy Sue e gli Invisibili. Devo dire veramente brutta. Una spessa patina di tristezza copre sapientemente tutto. Mezzucci e trovatine, che probabilmente divertono l’autore, tentano di dare un senso al vuoto siderale. Nessuna speranza. Scopiazzature qui e là di invenzioni geniali di altri – si capisce che l’obiettivo irraggiungibile è la grandezza della Rowling - non riescono ad alzare il tono. Insomma robaccia. E poi secondo me può fare anche un po’ male.

Avevo comprato della serie di Brussolo il libro Il giorno del cane blu. Mi ero fatta trarre in inganno perché avevo letto si era trattato di un caso letterario in Francia. Poi comincio a leggere mi trovo in una di quelle situazioni in cui pensi di aver diritto ad un risarcimento. In fondo investi tempo, sei disponibile a mettere a disposizione dell’autore la tua testa e il tuo cuore, per averne in cambio tutto quanto non vorresti. Insomma diciamo che mi sono trovata con un libro che fa proprio schifo.

Ognuno può avere le proprie preferenze, ma certo chi fa un certo uso del materiale libri prima o poi si trova tra le mani qualcosa di cui liberarsi. Perché certo la teoria, convalidata dalla pratica, prevede che capita un libro di cui doversi disfare. Ma come? Dove? In che modo?

Tosca propende per i cestoni. Tutto quello che non si vuole o non si può tenere si mette in dei cesti a disposizione degli amici di passaggio. Ovviamente ognuno non solo può ma deve portar via tutto quello che vuole. In realtà questa ipotesi non è collegata a libri brutti. Secondo la posizione di Tosca è possibile farsi accompagnare solo dai libri di cui non si può fare a meno. Quelli importanti, belli, compagni di vita. Tutti gli altri vanno nei cesti.

Poi c’è chi pensa che il macero è sempre una soluzione. Te ne liberi e rimetti in circolo la materia prima. Poi leggo in prima pagina sul Corriere della Sera che l’Unesco ha mandato al macero centomila libri. Certo la cosa non è passata sotto silenzio. E soprattutto mi è sembrata triste, con un vago senso di malvagità di fondo. Perché poi diciamolo liberarsi di un libro brutto non è poi così facile. Da una parte buttare, mandare al macero, non parliamo poi di bruciare libri ha un sapore vagamente malvagio, dall’altra se un libro ti fa schifo darlo ad altri non è certo una cosa proprio carina.

Forse la soluzione può essere inventare qualcosa utilizzando vecchi schemi. Così per esempio nel rito di passaggio da un anno ad un altro c’è spesso il liberarsi del passato, del brutto, del vecchio, di tutto ciò che non si vuole più. Mi ricordo incredibili capodanno a Napoli. Dalle finestre veniva giù di tutto: piatti, bicchieri, mobili vecchi. E così pure l’uso del fuoco non deve necessariamente richiamare oscuri scenari. Per esempio Pepe Carvalho, il detective galiziano residente a Barcellona figlio del prode Montalban, ha sempre utilizzato i libri per accendere il fuoco su cui preparare cibi succulenti. Insomma con un po’ di se e di ma forse una soluzione si trova.

La mia idea sarebbe di liberarsi dei libri che proprio fanno schifo – e che quindi è bene non regalare – utilizzandoli per qualcosa di veramente particolare. Al momento sono orientata per accenderci il camino la sera di capodanno, quando si tira una linea e si butta via tutto quello che è stato. Che cosa può esserci di meglio di trasformare un libro che fa schifo in uno strumento per attivare un rito di passaggio. E’ un’idea, lascio che maturi. Almeno fino al 31 dicembre.