giovedì 23 dicembre 2010

Belzebù, Alina ed io

Mi trovo tra il Maestro e Margherita e quasi nemmeno me ne accorgo. Gli sms con Alina al solito tracciano la rotta. Le scrivo con una certa preoccupazione di fondo: “Mercoledì sono a Milano per incontro con grande inquisitore tuo caro amico. Sono un po’ allarmata. Che dici?” La risposta è beffarda: “What a terrible day you will have!!!” Replico subito: “Non scherzare. Ci ha anche invitati a colazione. In napoletano si dice ‘Quann'ò riavolo t'accarezza....vò ll'anema!’. E io non mi sento tanto bene. Provo a conservare un velo d’ironia. Giusto un velo”. Alina è olimpica: “Meravigliosa l’espressione napoletana! In ogni caso è molto simpatico...”. Ed io: “Come tutti i grandi inquisitori e i demoni di peso. Ma io seguo altri percorsi. Almeno dentro di me”.

Belzebù è il capo dei demoni, lo stratega, il malvagio. Dopo l’incontro a Milano scrivo ad Alina: “Autorevole, convincente, durissimo, intelligente, sincero, bugiardo, di parola, oscuro, affascinante, leader, forte, sicuro. Insomma è proprio Belzebù. Che dici?” E lei tranquilla: “Mi vedi vero che rido come una pazza?” Ribatto: ‘Magari ho un futuro come guitto. Mica facile far ridere. E poi giocando con il lato oscuro della forza è pure più difficile....perché ci vuole coraggio...” Una pausa di pochi minuti e la colpisco con un altro sms: “Ma dimmi che non pensi anche tu che lui corrisponde a quello scatto. Dico il tuo amico Belzebù. Eh?” Alina è laconica: “Per me è....Non lo so esprimere....” E io proseguo: “Guarda io sono di larghe vedute. Arrivo anche a capire che magari vuoi bene al tuo amico Belze”. E lei subito: “Diciamo che ho sempre pensato ‘è veramente una brava persona...’ che per Belze è un complimento mica male....”. Non resisto a questa provocazione: “Ecco tutto direi di lui tranne che è una brava persona, ossia l’uomo qualunque. Dai non raccontartela. Belze è Belze. Poi magari gli puoi anche voler bene. Ma non puoi negare la sua Belzetà. E smettila di ridere”. Alina non resiste: “Sono in una conference con degli sviluppatori che non si capacitano del perché oggi sia così ridanciana visto che di solito urlo...”.

Le riscrivo il giorno dopo. “Questa mattina prima persona incontrata Belze. Ora gli ho mandato una mail. Spero di non subire il lato oscuro della forza. Tu che dici?” Risponde subito:”Sono al convegno a cui ti avevo invitato, ma mi pare che tu sia stata rapita da Belzebù. Almeno ci scrivessi un bel post sul blog....”. Ribatto: “La tentazione è forte, ma il tempo poco. Teologicamente pone anche il problema dell’esistenza e della responsabilità di chi fa del male. Come dire, Belzebù non può non esistere, ma se è così toccherà che qualcuno si prenda la briga di esserlo. Insomma, qualcuno dovrà pure essere Belzebù, che si carica pure un bell’onere. Anche assodato questo, io preferirei evitare la consuetudine con il tuo amico”. Alla fine le dico: “Altra giornata di lavoro con Belze. È destino o una prova di quelle che spesso toccano a noi anacoreti? Tu capisci, vero?” Alina risponde:”Ma non è che alla fine ti fai conquistare da Belze!” Ed io: “Escluderei che noi anacoreti si possa fare una fine così misera”.

martedì 21 dicembre 2010

Alina. Sostenersi ad sms

“Come va?” Sparo l’sms ad Alina e lei risponde subito: “Abbastanza bene. Ma che mi vedi? Sto facendo vedere i tuoi post”. Ed io: “Dove scusa? E soprattutto qual è il tuo pubblico? Se hanno bisogno di un creativo femmina di mezz’età io sono qua”. Silenzio, Alina non risponde. E io insisto. So che lei non resiste ai miei sms. “Dai, sputa il rospo. Oggi ho scoperto con dolore che il blackberry ha cancellato tutti gli sms da metà settembre in poi. Sparite nostre splendide chiacchierate in cui ci sostenevamo a vicenda. Tu facevi anche credere di essere in linea con una blogger famosa. Per quanto un po’ fumosa”. Pochi minuti e vedo la sua risposta: “Un aspirante redattore....peccato per gli sms...un pezzo di storia”. Mi preoccupano sempre un po’ i nuovi arrivi nella ‘bottega’ di Alina. “Oh mamma. E questo dove l’avete recuperato? E io che speravo in un pool che avesse bisogno di una creativa. Tutto pronto per NY? Io fatto tutto per Gerusalemme” “Brava. Anch’io per New York...”. Ma voglio sapere di più: ”Chi è sto nuovo acquisto? Avete voglia di espandervi? Guarda che io non so in condizione de scrivere di più”. E lei: “No, espanderci mai...Curiosi di un master che ci ammirano e ti ammirano”. “Capito il genere. Tipo quelli che per qualunque cosa devono parlare con il Professore e poi mi chiedono consiglio sull’immagine da inserire in pagina, quando io magari devo chiudere un paio di crisi”. “Attenta...molto attenta...Sto mettendo a punto nuovi poteri”.


E questa è la manifestazione dei nuovi poteri. Insomma, sto lavorando per consolidare gli sms, trasformandoli da ‘parola parlata’ in ‘parola scritta’.


Gli sms sono un pezzo della nostra vita. Hanno infinite potenzialità. Puoi parlare di fatti privati in occasioni pubbliche e di cose di lavoro mentre segui la recita di tua figlia a scuola. Arrivano quando sei in riunione, al supermercato, in viaggio dall’altra parte del mondo, la domenica sera o alle cinque di mattina del lunedì, in bagno o dal medico. E puoi rispondere subito o no. Puoi scherzare con il collega dall’altra parte del tavolo mentre segui con aria seria una trattativa o chiedere chi è il nuovo arrivato alla riunione. Gianfranco mi scrive sempre: “Ho fatto un po’ di spesa (pane, latte e prosciutto)...”, perché detesta quando arriviamo tutti e due con il pane fresco dopo giorni in cui nessuno lo ha comprato. Mentre mia sorella mi chiede sempre: “Che fate nel week end?” Quelli con Alina sono sms di sostegno, lei dice: “La nostra nuova health therapy”. E hai detto niente....

martedì 14 settembre 2010

Tre ragazzi cinesi. A Londra

“Mi serve proprio un caricabatterie da utilizzare qui. Non riesco a guardare il Ds sapendo che non posso giocarci. È una tortura”. Londra fine aprile. Sono giorni che la piccola continua a lavorare sull’acquisto di un caricabatterie per il suo Nintendo Ds. Ha dimenticato il suo a casa a Roma e quell’aggeggio infernale su cui i ragazzini cominciano la propria vita di nativi tecnologici è senz’anima. Gianfranco, la piccola ed io camminiamo in centro, ai margini del quartiere cinese. “Va bene, dai, se lo troviamo lo compriamo”. Gianfranco dichiara la sua resa.


Londra chinatown

Londra a fine aprile è una meraviglia. È il lato bello del climate change. E non ti aspetteresti tanta luce e sole. Siamo qui perché la piccola si innamori di Londra, visto che dovrà comunque farci i conti nella vita. E la congiuntura è perfetta perché questo succeda, grazie anche agli scoiattoli di cui sono pieni i parchi, ad un paio di passeggiate su dinosauri e mammut al Natural History Museum, a due o tre negozi di giocattoli con più piani di ogni cosa che un bambino possa desiderare.

“Ecco guarda, lì forse riusciamo a trovare il caricabatterie”. Gianfranco indica la vetrina di un negozio cinese, che ha in un angolo inequivocabili immagini di pc, telefonini e altre diavolerie. Attraversiamo la strada con la piccola che è al settimo cielo. Entriamo. Il giovane dietro il banco dà l’idea che si occupi di tutto, ma non di quella sezione di mercanzia esposta sul vetro che ci ha catturato. Gli dico che cosa ci serve e lui ci indica una piccola scaletta stretta e ripida che sprofonda nelle viscere del palazzo. Scendiamo. La piccola stanza è stranamente vuota per un negozio cinese. Davanti a noi tre ragazzi di una ventina d’anni, ognuno con un pc davanti e una delle mani che fa corpo unico con il mouse. Si capisce che il pc è un prolungamento del corpo. Dietro di loro una porta aperta che dà su di una specie di retrobottega tecnologico.

Londra chinatown

Mi avvicino a quello seduto al centro, che ha i capelli di un bel improbabile rosso tiziano e una piccola cresta vagamente punk. Tiro fuori il Ds e gli chiedo con poche speranze un caricabatterie. Il ragazzo molla finalmente il mouse, prende il Ds e lo rigira tra le mani. Mi guarda, fa un piccolo cenno con la testa, si alza e senza dire una parola va nel retrobottega. Apre due o tre scatole di cartone, tira fuori cose strane. Poi dall’ultima prende un caricabatterie. È perfetto. Senza dire una parola, torna davanti al suo pc e mi restituisce il Ds insieme al carica batteria, dicendomi solo: “eight pounds“. Gli sorrido, tiro fuori le otto sterline, paghiamo e andiamo via.

Si capisce che avremmo potuto chiedergli di tutto: un programma taroccato o un attacco ad un sistema protetto. Sono tre professionisti della rete pronti a navigare in Occidente ed in Oriente. Invece noi gli abbiamo solo chiesto un caricabatteria per un Ds. E non si sono fatti sorprendere.

domenica 30 maggio 2010

Cina di famiglia

“Devo andare 5 giorni in Cina” - scrivo in una breve mail a mio padre - “Tuo nonno, il padre di tua madre, era stato in Cina ad inizio '800? Mamma ha un bellissimo spillo che se non sbaglio lui portò da quel viaggio. E poi mi sembra di ricordare che aveva parecchie azioni della mitica Compagnia delle Indie. È così?”

La risposta non si fa attendere. “Mio nonno Friedrich Rupprecht von Virtsolog da cadetto dell'Accademia della Imperial-regia Marina di Pola partecipò ad una storica crociera in Estremo Oriente che giunse fino in Giappone e durò vari mesi. Se vuoi posso appurarne la data precisa perché dovrei avere da qualche parte un libro sulla storia di tale Marina. Egli lasciò il servizio abbastanza presto, nel grado di tenente di vascello, perché molto attaccato alla moglie e alla famiglia, comunque prima della nascita di mia madre. La crociera dovette aver luogo verso la metà del secolo. Poi fu promosso Korvettenkapitaen nella riserva. Una curiosità: quando prestava ancora servizio nell'Accademia Navale di Pola - non so che cosa insegnasse - era anche il direttore della banda! Dei figli, ottimi musicisti erano mia madre, soprano drammatico e pianista, e zio Fritz, eccellente violinista che, in pensione come prefetto (Hofrat=consigliere aulico) suonava regolarmente nell'eccellente orchestra sinfonica di Baden. Io la sentii nel 1952, quando andai in Austria dopo la maturità, nell'operetta Eine Nacht in Venedig di non so quale Strauss, se il padre o il figlio. Dal viaggio in Cina mio nonno portò una caterva di roba, quasi tutta rubata o distrutta quando i Russi requisirono la villa della Christallniggasse 9 con tutto quello che c'era dentro, che quando fu restituita non aveva più neanche gl'infissi delle finestre, probabilmente bruciati nei camini”.

“Sì papà, mi farebbe piacere sapere quando andò in Cina. Io sarò Shanghai e Pechino. E lui hai idea di dove andò e in quanto tempo e per quanto tempo?” Anche in questo caso mio padre non si fa attendere: “Credo con la Fregata Donau nel 1868. Andarono in Cina e in Giappone”.

domenica 11 aprile 2010

Tre piani per tre fratelli

“Mi racconti la storia della vecchia casa di famiglia di Napoli? Erano tre piani e furono divisi tra i tre fratelli?” Ogni tanto via mail mi parte un messaggio per mio padre, che tocca pezzi di passato.

Napoli
La sua risposta arriva sempre rapida. “Cara, la ‘casa palazzata’ della Salita Stella, fu acquistata dal mio bisnonno Francesco di Paola Ferrara verso la metà del secolo XIX, credo in un'asta giudiziaria. Quando avrò un po' di tempo troverò il contratto di acquisto che sono quasi certo esista ancora tra le vecchie carte di famiglia. Per testamento (che forse anche potrei trovare) lasciò la parte più elevata del palazzo al figlio Eugenio, sposato con Cleonice Caterini, capostipite del ramo Augusto – Decio – Amedeo – Consalvo – Gustavo – Sara – Marta - Renato (non in ordine di nascita). La generazione successiva è formata dai figli di Augusto, magistrato, sposato con Angelina Capalbo (Adriana, Franca, Marcella, Massimo, Corrado e Flavia), di Amedeo (in questo momento mi sfugge il nome della moglie, che era una signorina di Brescia, dove lui faceva l'ufficiale: Alfredo e Amedea) e Decio, sposato con Lucrezia Viola (i celebri gemelli Gegè e Gustavo, e poi Renato e Alfredino); il piano "nobile" andò a mio nonno Antimo Maria Luigi noto Luigi, sposato con Matilde Caterini, sorella di Cleonice; la parte sottostante al fratello più grande, Enrico, sposato con Elvira Guidi, di famiglia molto nobile, figlia di un diplomatico italiano presso la corte ottomana, per cui lei era nata a Costantinopoli. I figli di questa coppia erano Elena, nubile, Claudio, sposato con Maria Curcio ma senza figli, e Edmondo, detto Momondo, sposato con zia Giuseppina (non ne ricordo il cognome), genitori di Enrico e Annamaria, questa sposata con Ducci e madre di Paolo, diplomatico, Domenico, avvocato penalista in Napoli e una ragazza (bellissima come la mamma) di cui in questo momento non ricordo il nome, che credo sia biologa.

Di tutta questa proprietà, purtroppo molto degradata, sono l'unico Ferraro ancora condomino, per quasi duecento millesimi. Mi sento come quello delle barzellette che rimane con il cerino in mano ...”

Napoli, Salita Stella

Pezzi di passato continuano ad andare nei messaggi tra me e mio padre. “A che numero è il palazzo della Salita Stella a Napoli? Mi è capitato sotto mano un libro – Napoli, Atlante della Città Storica, Vol. 5 - che fa il punto sui quartieri Stella, Vergini e Sanità. (http://www.librerianeapolis.it/pages/Schede/Napoli_Atlante_Citta_Storica_5.html) Il volume fa riferimento a Stella: Chiesa ed ex Monastero di S. Maria della Stella, Palazzo e Cappella Amoretti, Palazzo alla salita Stella 21, Palazzo alla salita Stella 32, Palazzo alla salita Stella 39”.

Napoli in bianco e nero

“Il numero è il 27 (Salita della Stella, Napoli: http://maps.google.it/maps?f=q&source=s_q&hl=it&geocode=&q=Napoli+salita+stella+&sll=40.85589,14.251226&sspn=0.001895,0.003428&ie=UTF8&hq=&hnear=Salita+della+Stella,+Napoli,+Campania&ll=40.855435,14.251157&spn=0,359.999143&t=h&z=20&layer=c&cbll=40.855181,14.251504&panoid=2dZvKYSyrt_C9BZyK_qF4g&cbp=12,274.91,,0,-0.92 ). La cappella Amoretti era (o è) nei gradoni Stella, che sono in prosieguo della Salita Stella. Il 21 era il famoso Palazzo ‘a spuntatora’, cioè che aveva l'ingresso principale sulla Salita Stella e il secondario alle spalle, nel vico Stella. Vi abitava, fra tanti altri, un monsignore, vescovo titolare ‘in partibus infidelium’, che si diceva ‘si tenesse’ una tale signora, moglie di un professore di disegno che una volta mi fece un ritratto che forse sarà ancora da qualche parte. Nel 32, di proprietà del Pio Monte della Misericordia, oggi sottoposto a vincolo monumentale, abitavano i miei amici d'infanzia e giovinezza Ettore Albarella, e Turi e Gino Arcidiacono. Il padre di Ettore era cancelliere della Pretura, alla sezione "Tutele, Curatele e Folli". La Pretura era nell'ex convento di San Francesco fuori Porta Capuana, un tempo carcere giudiziario, dove era stato detenuto il mio bisnonno Francesco di Paola Ferrara (Nonno Ciccio), ex avvocato del Re Francesco II, arrestato perché sospettato di aver partecipato alla congiura del Barone Cosenza per reinsediare i Borboni. Il padre degli Arcidiacono era professore di ginnastica, centurione della Milizia, Marcia su Roma, Sciarpa Littoria ecc., ma sempre rimasto povero! Turi era con mio fratello Mario, alla Via Campana di Pozzuoli, quando furono investiti da un camion americano. Mario morì dopo tre giorni all'ospedale degl'Incurabili per frattura della base cranica, Turi, pur gravemente ferito, miracolosamente si salvò. Prima degli Arcidiacono, nella stessa casa ci aveva abitato Zio Momondo (figlio di Enrico Ferraro, celeberrima forchetta) con la moglie Giuseppina e i figli Enrico e Annamaria, madre di Paolo Ducci.


Napoli in bianco e nero

La nostra parrocchia era la SS. Annunziata a Fonseca, dove ho fatto Prima Comunione e Cresima sotto la guida di Padre Russo e con la preparazione della signora De Gregorio, che aveva sposato il figliastro di Zia Sara (figlia di Eugenio Ferraro). Zia Sara, infatti, aveva sposato il vedovo presidente De Gregorio, magistrato. Il figlio di questa coppia più giovane, bancario, era amico di Giuseppe Ciaramelli.

La mia scuola elementare era la ‘Vincenzo Russo’ (poeta, martire della Repubblica Partenopea), allogata nell'ex convento di Santa Margherita a Fonseca, confiscato con la Legge delle Guarentigie, dove insegnava Zia Anna di Donato.

Alla Salita Stella 39 abitava la famiglia De Marinis: il padre, spedizioniere doganale, era un discreto poeta dialettale (forse ho da qualche parte un suo libro di poesie napoletane), i figli erano compagni di calcio dei miei fratelli e di Enrico Ferraro. La loro casa aveva alle spalle un bel giardino che apriva sull'ariosa piazzetta Stella, di fronte alla splendida chiesa di Santa Maria della Stella tenuta dai frati minimi (quelli di San Francesco da Paola), che andò in buona parte distrutta in un incendio, credo nel '45: ricordo perfettamente l'evento e il cielo rosso prodotto dal riverbero delle fiamme. Questi monaci, guarda caso, amministreranno in seguito anche la nostra parrocchia di Santa Maria Antesaecula a Montedonzelli, dove Guido fece la Prima Comunione. Certamente mi verranno in mente altre cose”.

L’avventuroso zio Amedeo

Ricevo da mio padre: “In questo momento mi sono ricordato che la moglie di Amedeo Ferraro (precipitato con l'aereo), madre di Alfredo e Amedea, si chiamava Gisella. Era un'eccellente pittrice, come del resto la figlia Amedea (abbiamo un quadro di quest'ultima in salotto), però a livello puramente dilettantistico perché la professione sarebbe stata disdicevole a signorine di buona famiglia. Forse ricorderò anche il cognome, ma credo che abbia poca importanza”.

Ma partiti con una storia, piano piano vengono a galla informazioni che sembravano dimenticate. E così dopo pochi giorni trovo un nuovo messaggio di mio padre. “Mi sono ricordato che la vedova di Amedeo Ferraro (la figlia Amedea nacque poco dopo la tragica fine del padre) si chiamava Gisella Pedrazzi. Ne ho chiesto conferma per telefono ad Alfredo. Con costui siamo andati una volta a visitare lo splendido palazzo dei Pedrazzi a Brescia, ora sede della Croce Bianca: una magione principesca! Eravamo di ritorno dalla Valcamonica, dove avevamo portato da Genova la salma di Amedea per l'inumazione. Il padre di Gisella si era ritirato lassù perché a Brescia si era diffusa la voce che fosse un terribile jettatore, tanto che fu addirittura COSTRETTO a lasciare la città. Certo, la morte del genero fa pensare...”

“Scusa, ma in che anno precipitò con l'aereo Amedeo? Ed era lui che con il fratello andava durante la prima guerra a vedere dall'altra parte delle file nemiche e tornava con la tela dell'aereo tutta tagliata dai colpi nemici?”



1915 - 1916 Entra in linea il primo caccia italiano il Nieuport Macchi

Mio padre non si fa attendere: “Forse nel 1917, ma non in azione di guerra. Si era levato in volo di addestramento e volle andare a rendere omaggio (o, meglio, ad esibirsi davanti) alla moglie Gisella, che aspettava Amedea, passando radente sulla loro casa, una specie di masseria fortificata che una volta sono stato a visitare con Alfredo, sempre vicino Brescia. Con la "riattaccata", stallò e precipitò. Non so nulla di queste ali bucate, ma credo che questo si sia detto e si dica di tutt'i piloti che operano in zona di guerra! Né credo che alcuno dei fratelli volasse con lui: infatti gli osservatori, che volavano con i piloti per osservare, appunto, le linee nemiche, erano in genere ufficiali di artiglieria che potevano meglio valutare le istruzioni da impartire poi ai propri direttori di tiro; e i Ferraro figli di Eugenio (Amedeo, Consalvo, Gustavo, tutti e tre caduti durante la Prima Guerra Mondiale, e Renato e Decio, erano tutti in fanteria, al contrario dei figli di Luigi (Riccardo e Mario) che erano artiglieri, cui si aggiunse mio padre Guido come ufficiale di complemento, il quale comunque la guerra la fece anche lui sul serio (e poi doveva sposare proprio un'Austriaca - si conobbero appena sei anni dopo la fine della guerra - che chiamava per scherzo "la Nemica", titolo di una celebre commedia di Dario Niccodemi).

Giusto per completezza, Amedeo Ferraro era decollato dal campo d'aviazione di Ghedi, che ancor oggi è un'importante base aerea che ho visitata durante un viaggio d'istruzione con l'ISSMI (Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze)”.

domenica 21 marzo 2010

Amelia non lo sa. Primi appunti per una fenomenologia delle riunioni

“Secondo me dovreste vendere i biglietti. E c’è chi pagherebbe per venire alle vostre riunioni”. Lo dico pianissimo, sorridendo al giovane collega seduto alla mia destra. Dopo di lui c’è Amelia, il suo capo, che segue da anni il tema ed ha organizzato l’incontro. Subito dopo è seduto Piergiorgio, il capo di Amelia. Intorno al tavolo venti persone di strutture diverse. L’obiettivo è far partire un piano di iniziative, trovando il modo di mettere d’accordo venti teste di venti organizzazioni.

Dal lato destro arriva una domanda: “Forse non c’entra molto con il progetto, ma mi spiegate bene il quadro complessivo?” Chi parla è una delle due bionde overcinquanta che lavorano in coppia. Lei fa le domande - sempre fuori tema, che cominciano tutte con: “non ho capito”, “forse non è questo il luogo per parlarne”, “è un’altra questione, ma vorrei mi diceste” – mentre l’altra non smette mai di prendere appunti masticando gomma. Guardo il collega a destra e gli sussurro: “Ma secondo te se non trovassero posto vicine riuscirebbero a far domande e prendere appunti?”

Riunioni

Ha chiesto la parola il giovane uomo seduto in fondo a sinistra. Ha un’aria sveglia che fa ben sperare. “È solo la seconda volta che partecipo a queste riunioni. Potete chiarirmi il quadro completo da cui dobbiamo partire?” Non era così sveglio e vuole un ‘ripassino’ su tutto quello che avrebbe dovuto sapere ben prima di entrare a far parte del gruppo di lavoro. Amelia non resiste: “Le assicuro che non ci sono stati altri incontri” – come dire non ti puoi essere perso qualcosa – “ma possiamo certo partire da un breve riepilogo complessivo”. Amelia comincia con il ‘ripassino’. Non perde la pazienza, ma si vede che è provata.

Amelia non lo sa, ma da un certo momento in poi intorno al tavolo io conto per due. Sono lì con la mia identità pubblica e con questa privata di blogger. Ho deciso di smetterla di soffrire. Osservo senza più la voglia di scappare e la certezza che devo resistere a tempo indefinito. Sono qui da osservatore politico neutrale. E mi godo l’incontro.

Amelia sa che per raggiungere l’obbiettivo deve lasciare che ogni componente tiri fuori i suoi animal spirit e che pensi di aver messo nel sacco gli altri. Ogni tanto chiede aiuto e sostegno a Piergiorgio, che si muove da navigato abitatore di questo mondo. Interviene la bella rappresentante dell’azienda, che non può prendere alcuna decisione perché non ha un mandato abbastanza ampio. E comunque anche se lo avesse avrebbe bisogno di un tempo infinito per farsi un’idea. Poi parla il simpatico capo dell’ associazione che dice tutto e il contrario di tutto. La palla passa alla giovane sottile con la voce profonda che parla a nome della grande istituzione. Poi Amelia riprende la parola e chiarisce un aspetto pratico importante.

“Non sono d’accordo con le ultime cose che hai detto”. L’individuo che è intervenuto è arrivato da poco. Indefinibile. Comincia una lunga perorazione in favore di un’interpretazione giuridica oscura e incomprensibile. Guardo il giovane collega a destra: “E questo chi è? Chi rappresenta?” “È Colcolli. Lo hanno licenziato da poco, ma si presenta sempre alle riunioni come vicepresidente di un’associazione”. Amelia è davvero provata e ogni tanto passa la parola a Piergiorgio per tentare di stoppare le elucubrazioni di Colcolli.

Purtroppo devo andare. Come osservatore politico neutrale sto fissando i caratteri per identificare antropologicamente i soggetti più interessanti. Nella mia posizione pubblica ho garantito il suo sostegno per un progetto innovativo, semplice e intelligente. Non so quante altre volte dovremo soffrire insieme per tentare di farlo andare in porto. Su Internet fioriscono modi per sottolineare il lato oscuro e inutile degli incontri.


Il problema è che spesso per fare delle cose devi mettere insieme più teste e posizioni. E non lo puoi fare senza metterli intorno ad un tavolo. Però certo una riunione, o meglio un progetto che non si può realizzare senza riunioni periodiche, tempra. A meno che non si decida di trovare il lato buono e si punti a diventare un antropologo del genere.

sabato 20 marzo 2010

Matrimoni organizzati

“Ma dove corri?” Cammino veloce sul marciapiede e praticamente mi scontro con Daniela, che non mi ha nemmeno vista. Mi risponde rapida: “Ho un appuntamento con l’architetto. E poi devo fare dei giri per tutta una serie di cose che devo mettere a posto”. La vedo in affanno e con un sorrisetto perfido le sussurro: “Matrimonio?” “Beh sì. Ho duemila cose da fare e lui dice anche che dovrei smettere di fumare”. Sposarsi per una donna adulta – che non può appaltare la cosa in famiglia o ad amiche – è un massacro. Oltre ad essere un buco di bilancio non da poco. Daniela ci ha provato in tutti i modi a rimandare, ma non ha più alibi. “Mi sposo ad ottobre...tutto questo se i lavori di casa e l'architetto mi lasciano soldi per affrontare il salasso matrimoniale...sono terrorizzata all'idea ...soprattutto di dover smettere di fumare...ma poi penso alla piacevolezza del rientro a casa e a una presenza calda e rassicurante, oltre ad una cucina spaziosa che mi consenta di sfogare quel po' di fantasia che il lavoro mi lascia”. Insomma si sposa. Ed è giusto che accada. Ormai è un matrimonio pressoché organizzato.



Come quello di Cecilia. “Tu a che punto sei?” “Abbiamo fissato quasi tutto. Resta il problema chiesa-ora. Io mi vorrei sposare la sera, ma nella chiesa che abbiamo scelto ci fanno sposare solo la mattina. Non è una questione da poco. La mia famiglia e i miei amici, che vengono da fuori, devono arrivare il giorno prima se ci sposiamo la mattina”. Problema irrisolvibile e allora cambio discorso: “E il vestito?” “Non l’ho ancora scelto, ma vorrei prendere una cosa semplice”. “Perché vuoi usarlo anche dopo?” “Veramente no”. “E allora che ti importa. Scegli quello che ti piace di più”. La verità è che il matrimonio è un rito di passaggio. E occuparsi di una valanga di cose non rende meno seria la vicenda.

Niente impedisce di continuare a sposarsi. Ed è bene così. In questo momento dell’anno ferve un lavorio incredibile. “E arrivata a 38 anni mi sposo. Mia madre non ci poteva credere. Io sono pugliese. Torno a casa per sposarmi in una bellissima masseria fortificata”. Guardo la ragazza seduta con me e altre due nella vasca per l’idromassaggio in palestra. “Penso che tu faccia bene – le dico per rafforzare la sua motivazione – e farai le bomboniere?” Perché alla fine il crinale dell’impegno sono le fatidiche bomboniere. “Beh, sì. Ma vorrei fare una piccola cosa semplice”. La rincontro due mesi dopo: “Come è finita con le bomboniere?” “Ho scelto delle cornici d’argento”. Sorvolo sul piccolo e semplice, perché chi si sposa ha bisogno di supporto non di vandali devastatori.

lunedì 15 marzo 2010

Matrimoni immaginati

“Va bene ci vediamo dopo. Ho capito, vai al cinema con Tarek. Se è lì con te puoi passarmelo un momento?” Sento Gianfranco dall’altra parte del telefono che parla con Tarek mentre gli passa il portatile. “Ciao cara, come stai?” “Bene – gli rispondo rapida – ma dimmi hai poi saputo se tuo padre si è sposato”. “No, non ho ancora nessuna conferma. Ma non voglio chiederglielo per telefono. Vorrei aspettare di vederlo e parlargli. E soprattutto voglio dare tempo al tempo. E poi sai, sono praticamente sicuro che si sia sposato”. Sono quasi tre mesi che andiamo avanti così. Io continuo a chiedergli di questo matrimonio immaginato e lui continua a dirmi che ancora non ha avuto la conferma.

Ne abbiamo cominciato a parlare la notte di Capodanno a casa di Marco. Era tanto che non ci vedevamo. Seduti vicini alla cena del 31 dicembre ci siamo raccontati le ultime cose importanti. Come la lunga malattia e la fine di sua madre. La notizia che era finita la abbiamo avuta a Parigi. Camminavamo lungo il fiume Gianfranco, la piccola ed io, quando è squillato il cellulare. “Devo andare a Tunisi da Tarek”, la prima reazione di Gianfranco è stata di prendere subito un aereo per essere lì. Poi le cose sono andate in un altro modo.

“Tarek, non me li posso dimenticare. Quando siamo stati loro ospiti in una gelida Tunisi invernale, i tuoi genitori sono stati splendidi. Lei era simpatica e allegra, con una voglia e una capacità di comunicare che annullava il problema della lingua”. Mi guarda: “Sì, è vero era vitalissima ed era un centro di gravità per tanti. Sai quante persone mi sono venute a salutare, raccontandomi cose che lei aveva fatto per gli altri che io non avevo mai saputo. Era nipote di un generale”.

Mi sembra stiamo toccando un punto troppo profondo e cambio discorso: “Di tuo padre mi ricordo, invece, tanti piccoli gesti. Alla fine di ogni cena, senza dire una parola, mi sbucciava un’arancia e me la passava con un sorriso. Mi offriva dei datteri. Insomma, tuo padre non parlava, ma dimostrava con piccoli fatti la sua ospitalità. E ora come sta?” Tarek è netto: “Penso che si sia sposato. Non ho nessuna conferma, ma ne sono sicuro.” Un attimo di silenzio poi Giulia dall’altro lato della tavola chiede: “Come sposato?” “Beh, sai mia sorella ed io siamo lontani. Lui ha provato a organizzare una nuova vita con sua sorella, ma il tentativo non ha avuto successo. E così secondo me gli hanno trovato moglie”. “Ma sei sicuro?”, gli dico. “Beh, sicuro al cento per cento no. Ma una donna c’è. Ed è molto religiosa. Mi hanno chiamato da Nabeul, non sarebbe andata fuori da sola con lui. Non so, ci sono tanti elementi che mi fanno pensare che siano sposati”.

Tarek mi guarda in silenzio. Abbiamo sempre avuto una forte comunicazione affidata agli occhi. Poi ricomincia: “La cosa più strana è stata la reazione delle donne di famiglia. Tutte contrarie. Anche chi ha avuto contrasti per vent’anni con mia madre. Una reazione e una difesa di lei, dei suoi spazi e dei suoi luoghi”. “E tu che cosa hai fatto?” Tarek mi risponde tranquillo: “Ho messo a disposizione la mia stanza. Ho sempre avuto uno spazio mio nella casa dei miei genitori, che non abito visto che sono lontano. Ho detto che poteva utilizzarlo lei, in modo per preservare gli spazi di mia madre”. Lo guardo anche io: “E quel fratello di tua madre che era venuto per il Ramadan a Tunisi da Parigi?” Mi fissa:”È morto anche lui lo scorso anno poco prima di lei. È stato un anno duro per i nipoti del generale”.

domenica 24 gennaio 2010

Ancora nomignoli: Illipilli, Maggiolino e Ninnola

Da mio padre arrivano fantastiche storie, che trovo regolarmente in mail insospettabili. Lui vive costantemente connesso e la rete è la sua casa. Altro che digital native e hacker di ultima generazione. E così nella posta trovo un nuovo capitolo.

“A mano a mano mi stanno tornando alla mente tanti altri nomignoli di famiglia. Mia madre, che si chiamava Hildegarda, era chiamata dal marito Illipilli; mio fratello Mario, ch'era nato a maggio, era chiamato Maggiolino - il nome, graziosissimo, glielo aveva imposto la nostra governante Giuseppina, donna di buona cultura; il mio, sempre inventato da Giuseppina, era - e me ne vergogno assai! - Sasarone (chi sa poi perché?).

Ma il più noto, tanto da annullare praticamente il vero nome di battesimo (credo perfino sui documenti ufficiali), era quello di Ninnola, l'unica mia cugina prima italiana (in Austria ne avevo tre maschi e tre femmine), che certo tu ricordi: la madre di Valeria e Mauro. Pochissimi sanno che il suo vero nome era Immacolata, probabilmente in onore della Zia Tràcola o Babà. Quando nacque, da mia Zia Valentina, la sorella maggiore di mio padre, e dal marito zio Alfredo, si discusse molto circa il nome da imporle: piano piano si andò affermando quello, poi prescelto, di Immacolata appunto; però vi erano delle fiere resistenze, perché si diceva che fosse troppo lungo: ma una saggia comare osservò: ‘E che ce vo'? Si 'Mmaculata ve paretroppo luongo, vui chiammatela 'Mmaculatina!’ E invece poi si scelse Ninnola, o, meglio ancora, Ninnolina”.

Nomignoli: “Pezzetto di burro” poi diventato Bubi, Gucki

La storia del soprannomi non mi lascia indifferente, soprattutto perché penso di ricordare che mio padre ne aveva più di uno. Così gli scrivo: “Ma scusa, papà, tu non avevi anche un nomignolo in tedesco inventato dai tuoi parenti viennesi? Una cosa tipo "pezzetto di burro", o roba del genere. Ricordo di aver visto non so dove una foto in cui tu avrai potuto avere 3 o 4 anni, hai dei pantaloncini di pelle corti tirolesi e una faccetta tenera e ingenua. La zia Titi Lehne una trentina di anni fa deve avermi rivelato che allora per loro eri "pezzetto di burro". Ma di che anno era Titi Lehne?”

Mio padre risponde rapidamente: “E' vero, mia madre mi chiamava ‘Bubi’: non so se viene da Butter=burro. Però è un nomignolo comunissimo nei Paesi di lingua tedesca, addirittura banale. Invece è molto bellino quello femminile, pure diffuso ma meno, di Gucki, che viene da gucken=guardare, e si dà alle bambine che hanno occhioni grandi. Il vero nome di mia cugina Gucki è Rudolfine, dalla nostra comune nonna Rudolfine Wueste, olandese ma di origine hannovrana, madre di mio zio Fritz padre di Gucki (e di mia madre, ovviamente). Gucki è la sorella minore di Evi, moglie di John Mitchell, e di Fritz, morto tragicamente (forse uccisosi), padre naturale (e poi adottivo) di Michi, che è l'unico rimasto nella casa avita della Christallniggasse, 9 a Baden vicino Vienna.

Dei parenti Wueste l'unica con cui sono ancora in contatto è Dori Gelletti nata Wueste, figlia di zio Fritz Wueste, cugino primo di mia madre. Dovrebbero esserci da qualche parte ancora dei Kemperling: la sorella di Fritz Wueste, Anna detta Antschi (pron.: Anci) aveva sposato un tal Kemperling, che aveva una fabbrica di carte da gioco, forse a Maria Woerth, sul Woerthersee in Carinzia. Credo di ricordare che una volta che, con mamma, ci trovavamo appunto a Maria Woerth, nel pittoresco cimitero trovammo delle tombe di certi Kemperling.

Titi (Mathilde) Lehne – primogenita della prima sorella di mia madre, Elsa, sposata al Freiherr (Barone) Fritz Lehne Lehnsheim - era poco più piccola di mia madre, che era del 1889: quindi doveva essere di poco dopo il '900. I suoi fratelli minori erano Heina (Heinrich), marito di Steffi, senza figli, e Friedel (Friedrich), marito di Inge Reut-Nicolussi e padre dei famosi gemelli Andreas e Stefan e del terzo, Christoff. L'origine dei Lehne è leggendaria: proverrebbero dagli amori (illegittimi, ma molto romantici, ammettilo!) di un Sovrano, non si sa più (o io non so) di quale Paese, con una bella viennese, ai tempi del Congresso di Vienna” ...

Anche io replico presto: “No, papà, non mi riferisco a Bubi, che penso stia solo per ragazzo. C'è un modo di dire ‘pezzetto di burro’ in tedesco che usavano a Vienna per te quando avevi pochi anni. Titi Lehne mi disse che tutti ti chiamavano così. Come suona in tedesco "pezzetto di burro"? Ho un vago ricordo del suono, ma sono assolutamente certa della cosa”.

La reazione è quasi immediata: “Di questa storia del pezzetto di burro non so niente, comunque potrebbe dirsi Buetterchen o Buetterlein”.

Un antico fidanzato della madre di mio padre

Continua lo scambio di mail con mio padre su storie di famiglia che nessuno ha più toccato da parecchi decenni.

“Titi Lehne era la persona che era con tua madre nel viaggio da Trieste a Lussino in cui si conobbero la nonna e il nonno nel '24? Ed era sempre lei che fu molto innamorata di un fidanzato della nonna? Non mi ricordo bene questa storia, ma devo aver orecchiato che la nonna molti anni prima di incontrare il nonno ebbe un grande amore che non poté sposare per non so quale motivo. Sai niente di tutto questo? Devo aver sentito raccontare qualcosa alla nonna, una cosa tipo: ‘E lui mi dichiarò il suo amore in quel piccolo cimitero e ci baciammo e ci baciammo’. Deve essermi rimasto in memoria perché mi fece molta impressione questa cosa del cimitero, ma diciamo che eravamo in pieno romanticismo e culturalmente la cosa dovrebbe essere corretta”.

La risposta di mio padre non si fa attendere: “Non credo che Titi - che, pur essendole nipote, era diventata l'amica più cara della nonna dopo che la compagna da questa più amata, Tehzi Daal, che si era appena sposata con un elegantissimo ufficiale di cavalleria originario della Galizia (Polonia austriaca) morì di tisi (anche questo, molto romantico) - stesse con lei quando andò a Lussino da suo zio Florio, il padre di Fritz Wueste e nonno di Dori, ed incontrò mio padre. Che Titi fosse stata innamorata di un fidanzato della nonna non ne so nulla, però comunque rimasero legatissime fra loro per tutta la vita. Il ‘fidanzato’ - non credo che ci fosse mai stato un vero fidanzamento, ma certo la nonna ne era stata molto innamorata - si chiamava, credo, Heinz Schmitz. Era musicista e poeta. Io ricordo ancora una sua canzone, che la nonna qualche volta cantava. Dopo la 2a guerra mondiale, quando fu ricostituita la Repubblica Austriaca e poi fondata la Repubblica Federale Tedesca, so per certo che fu per qualche tempo ambasciatore austriaco a Bonn: lo era sicuramente quando andai la prima volta a lavorare in Germania come Gastarbeiter, cioè nel 1954. La nonna ruppe indignata il quasi-fidanzamento perché una volta lo vide che accompagnava un'altra ragazza nel tram da Baden a Vienna. Altri tempi!”

Ci sono sempre stato circuiti di comunicazione femminili e allora chiedo a mio padre di verificare con mia madre se lei sappia niente di tutta questa storia. La risposta è netta: “Neanche mamma sa nulla dell'innamoramento di Titi per un fidanzato della nonna, mentre è sicura che la nonna fosse sola quando andò a Lussino e conobbe il nonno. L'affetto di Titi per il nonno Guido non credo, quindi, che avesse origine da questa testimonianza al nascere dell'amore dei nonni a Lussino”.

Uno scellino per un marito?

Ormai mia padre ed io siamo impegnati in un ricco scambio di messaggi su vicende di famiglia. Io continuo: “C'è un'altra cosa che vorrei chiederti: dov'era il monastero dove la nonna promise avrebbe portato uno scellino se avesse trovato marito nell'anno? Sai niente di questo?”

Mio padre risponde: “Anche di questa storia del convento non sappiamo niente né mamma né io: mi pare un po' strano, perché la nonna, fino alla vigilia del matrimonio, era stata luterana. Si convertì al cattolicesimo solo perché allora non era consentito a un cattolico di sposare un'acattolica (mentre una donna cattolica poteva sposare un acattolico); e quel tipo di promesse mal si attaglia a una luterana. Comunque, ammesso che la cosa sia accaduta dopo la conversione, mi vengono in mente due grandi conventi veneratissimi in Austria: Heiligenkreuz, non lontano dalla tragicamente famosa Mayerling (e da Baden), dunque nel Wienerwald (il famoso "Bosco Viennese" del valzer di Strauss figlio G'schichten aus dem Wienerwald, in italiano: Storie dal Bosco Viennese), e la celebre abbazia benedettina di Melk, nella Wachau, di cui parla Umberto Eco nelle prime pagine de Il nome della rosa”.

La parola è ora a me. “Eppure io questa storia me la ricordo e non posso averla immaginata. Della presenza di Titi a Trieste non sono sicura, mentre sono sicura della promessa dello scellino. Era una cosa tra il serio e il faceto, ma non irriverente. E credo che la nonna abbia poi portato lo scellino al monastero. Penso fosse Heiligenkreuz, ma non abbiamo più nessun a cui chiedere conferma?”

Netta la risposta di mio padre: “Temo proprio di no”!

Ischia nel 1939

Ricevo da mio padre: “Il nonno era un uomo di un'amabilità, simpatia e senso dell'ospitalità eccezionali, ed era adorato da tutt'i parenti austriaci, che regolarmente venivano a passare periodi da noi a Napoli (avevamo una grande stanza per gli ospiti) o a Forio d'Ischia, dove andavamo d'estate in villeggiatura (mentre zia Valentina, la nonna di Valeria, con la famiglia andava d'estate a Resina, oggi Ercolano). L'estate del 1939 erano da noi a Forio zia Christel, sorella nubile della nonna, ed Evi, figlia di zia Elsa, quindicenne che aveva appena fatto la Confermazione (la Cresima dei luterani). Le cronache riferiscono che tutt'i ragazzi della spiaggia di Forio caddero in ginocchio davanti a questa stupenda viennesina, credo a cominciare da Massimo Ferraro. (Massimo ed Evi si sarebbero rivisti a Roma, a casa nostra, nei primi anni '80, quindi oltre quarant'anni dopo). Lo scoppio della 2a guerra mondiale - settembre 1939 - ci costrinse a rientrare a Napoli, da dove le nostre ospiti rientrarono in treno a Vienna. Questo ritorno anticipato da Forio è uno dei miei primissimi ricordi - non avevo ancora cinque anni - sgradevolissimo, naturalmente.
Ischia: La spiaggia degli inglesi - 1941
A Forio abitavamo una bellissima casa barocca di proprietà di tale donna Brigida Capuano, di fronte al ‘Torrione’ che allora ospitava una pensione, dove alloggiavano i parenti e amici in visita che non trovassero spazio da noi; ma zia Christel ed Evi stavano da noi”.

Ischia: Bagnanti - 1942


Zia Babà

Ancora un racconto di mio padre. “Cara, voglio parlarti ancora di mia Zia Immacolata, da tutti amatissima per la sua dolcezza, e perciò chiamata Zia Babà (da ragazza, Tràcola). Aveva un carattere mite, sdrammatizzava tutto ed era sempre in pace con se stessa e con il mondo.

Una volta, quando da ragazzina frequentava quella che allora si chiamava Scuola Normale, che era l'istituto solitamente frequentato dalle fanciulle delle buone famiglie, poiché non brillava per diligenza negli studi, era stata rimandata a ottobre in non so più quante e quali materie. A quei tempi - siamo prima della Prima Guerra Mondiale - la famiglia di mio nonno possedeva un "casino di delizie" (absit iniuria verbo!) a Pozzuoli, dove passava tutta l'estate ed anche oltre, servendosi i suoi membri della storica ferrovia Cumana per andare e venire da Napoli. Anche Babà - allora ancora chiamata Tràcola - si servì della Cumana per andare a sostenere gli esami di riparazione, che si sarebbero dovuti prolungare per alcuni giorni. Nella tarda mattinata, o forse nel primo pomeriggio, ritornò a Pozzuoli e da lontano salutò la sua mamma - la mia Nonna Matilde - che l'attendeva trepidante sul balcone di casa, gridando raggiante: "Una bellissima notizia, una bellissima notizia!" La bellissima notizia era che era stata già bocciata alla prima prova: "Che gioia, così domani non devo tornare a Napoli!"

Una sola volta l'ho vista molto tesa. Era morto non so più quale parente, e doveva scrivere alla vedova un biglietto di condoglianze. Chiese, dunque, aiuto alla sorella Maria (Mimià o Mime), colta e di facile penna, la quale scrisse un bellissimo biglietto: "Cara ..., sono molto addolorata per la dipartita del tuo sposo diletto, e pregherò per lui". Ma a Babà non stava bene: "No, Marì, nun me piace!" "Ma perché? Guarda che è una bella missiva". "No, no e no!" "Ma almeno dimmi perché!" "Marì, 'o bbuò sapé? Nun me voglio 'mpignà!" Temeva, infatti, che avrebbe dimenticato di recitare le promesse preci per il defunto, e non sarebbe stato corretto.

Tràcola, comunque, aveva una grandissima dote: era un'eccellente marinaia, e mio padre la portava molto volentieri con sé quando usciva per mare con la sua famosa barca Zizià (si vantava ancora, tantissimi anni più tardi, che ai suoi tempi era la più bella barca di Pozzuoli). Le eccezionali doti marinaresche d'Immacolata ebbero una definitiva consacrazione quando una volta, vedendo dalla finestra della villa di Pozzuoli una nave da guerra che dirigeva verso Napoli, e sembrandole che si tenesse troppo a terra, cominciò a urlare: "Ma chillu capitane è pazze? Vo' purtà 'o bastimento a perdere?"; e non si dava pace! Più tardi il Padre, Antimo Maria Luigi detto Luigi, tornò (con la Cumana, naturalmente) da Napoli, e riferì: "Ma sapete ch'è successo? L'incrociatore SAN GIORGIO s'è incagliato sulle secche della Gaiola, fuori Marechiaro!" Correva l'anno 1911 ... Il comandante, capitano di vascello Albenga, finì sotto processo, invece Zia Babà vantò quella sua intuizione per tutta la vita! T'invio, a parte, un giornale dell'epoca, dove però non si parla di Tràcola”.



Il piroscafo Principessa Mafalda nel 1911

Unisco il link speditomi da mio padre - http://emeroteca.provincia.brindisi.it/La%20Citt%C3%A0%20di%20Brindisi/1912/A.%2013,%20n.%2002%20(14%20Genn.%201912).pdf- e un’immagine del piroscafo Principessa Mafalda del 1911, che forse non ha alcuna connessione, ma in rete è tra le 2 o 3 immagini che si trovano cercando Napoli 1911.

domenica 17 gennaio 2010

L’anno della tigre

Il 2010 sarà l’anno della tigre secondo l’oroscopo cinese. Non lo ha messo nero su bianco una rivista di astrologia, ma il quotidiano La Stampa. Ha scritto in prima pagina: “L’anno della rivincita”, sottolineando che “Per i cinesi il 2010 sarà l’anno della tigre, simbolo di forza e fertilità. Per gli abitanti della Terra, che ad aprile diventeranno sette miliardi, dovranno essere i dodici mesi della rinascita dopo la stagione della paura e della recessione”. E se tutto questo non bastasse “Secondo l’Economist stanno per cominciare i ‘tenaci Anni Dieci’, un’era di nuovo ottimismo su cui non possiamo che scommettere tutti”.
La Stampa - prima pagina del 24 dicembre 2009

Tra il crederci e il non crederci ho deciso di seguire una terza via: ricordarmelo e lavorarci per quanto possibile. Ho staccato la pagina e con due puntine l’ho fissata sulla porta dell’armadio alla mia sinistra. La tigre mi guarda da lì e mi fa compagnia.

Romanticismo e pranzetti

Ricevo da mio padre:
“Per la tua raccolta di aneddoti familiari, ti voglio raccontare questa bella storiella. Mio padre Guido - un avvocato napoletano come, del resto, il tuo nonno materno – prima di sposarsi (piuttosto tardi: a 46 anni) era stato, per i suoi tempi, un grande viaggiatore, ma anche un grande tombeur de femmes. In uno dei suoi viaggi aveva avuto occasione di conoscere una signorina triestina, sorella di un allora celebre scrittore. Fra i due era sorta una disputa circa la rilevanza del cibo in un contesto romantico: la “mula” si dichiarava decisamente contraria, ritenendo che il solo parlar di mangiare fosse una volgarità.

Un bel giorno la signorina, forse con qualche mira matrimoniale, si presentò a Napoli en touriste, e tuo nonno ritenne - gradendolo molto! - suo dovere di farle da cicerone; però pensò che fosse giunto il momento di riaffermare il proprio punto di vista sulla vecchia querelle. Dunque, la povera triestina fu trascinata sul cavallo di San Francesco per tutti i moltissimi luoghi di Napoli degni di essere visitati, completando – sempre a digiuno – il giro con un’ascesa alla collina di Posillipo. Finalmente, quando era ormai esausta e mezza morta d’inedia, papà la portò all’allora leggendario “Scoglio di Frisio”, dove la incauta “mula” s’ingozzò di leccornie napoletane fin quasi a sentirsi male!

Quale fosse stato, poi, il guiderdone per questa vittoria morale di tuo nonno, le cronache non lo tramandano”.

venerdì 15 gennaio 2010

Passeggiare placa


“Dove vai?” Giuliana mi ha fermata a Piazza Venezia, quasi all’inizio di Via dei Fori Imperiali. “Vuoi proprio sapere la verità?” Mi guarda pronta a catturare una confidenza privata. “Passeggio”. Mi fissa con l’espressione di chi si sente preso in giro. “Sì, lo so che è incredibile, ma è così. Ho deciso di provare ad infilare nella giornata uno spazio anche molto piccolo per una passeggiata. È tutta colpa di Pietro Citati. L’altro giorno è uscito in prima pagina di ‘Repubblica’ un suo lungo editoriale con il racconto delle passeggiate quotidiane e sono rimasta folgorata”.

Roma - Via dei Fori Imperiali

La posizione di Citati è semplice: “Per almeno quarant’anni, ogni giorno alle 14 uscivo di casa”. Il percorso prevedeva sempre Villa Borghese. “A volte – continua Citati – proseguivo fino al Pincio, scendevo a Piazza del Popolo, e mi inoltravo fino a Piazza Navona. Non era lontano. Col mio passo da vecchio piemontese ci mettevo non più di quarantacinque minuti”. Ma non finisce qui, perché Citati spiega anche chiaramente gli effetti di tutto questo. “La passeggiata pomeridiana aveva, per me, un’importanza capitale. Mi riposava, mi irrobustiva, mi dava calma e quiete. Soprattutto cancellava tutti i pensieri della mattina: la mia mente diventava vuota: si compiaceva di essere vuota; e cominciavano a nascere altri pensieri, che lentamente si formavano, costruivano un’architettura, nella quale sarei vissuto il pomeriggio e la sera. La giornata diventava nuova”.

Ho scoperto poi che c’è una ricerca inglese, secondo cui in Europa tutti camminano meno di dieci anni fa (Repubblica 13 gennaio 2010, Passeggiate – Stanchi, soli, pigri non c’è più tempo di girovagare. Di Enrico Franceschini). E allora sto provando a fare quello che posso per ripristinare un segno di civiltà. Sono certa che Giuliana non mi ha creduto. E sinceramente anche io ho qualche dubbio che riuscirò a rispettare l’impegno di regalarmi ogni giorno almeno una passeggiatina di una mezz'ora. Ma ci provo.

Se una notte a San Paolo…

“Allora che ne pensa di questa missione? Tirando le somme, come le sembra sia andata?” Autunno, inizio novembre a San Paolo del Brasile, sono in macchina a fianco all’autista, mentre dietro siedono il capo e sua moglie. È notte fonda. La giornata è stata lunga e piena. Solo in serata, a chiusura degli impegni, siamo stati nell’ordine ad una mostra sul design italiano, ad un concerto, ad un cocktail e ad una manifestazione per la Mille miglia con cena finale. Io sinceramente sono distrutta, mentre il capo e sua moglie che hanno da un po’ superato i settanta sono freschi come fosse mattina. Il capo è soddisfatto: “Mi sembra che sia andata molto bene, vedo un miglioramento costante nella messa a punto dei nostri obiettivi”.

Dal lavoro passiamo alla vita di tutti i giorni, figli e nipoti compresi. Parliamo serenamente, girando per San Paolo nel cuore della notte. Io il giorno dopo ripartirò per Roma, mentre il capo e sua moglie andranno a nord, a Baja. Chiacchierare in auto ci fa sentire in una dimensione casalinga. L’atmosfera è confortevole e familiare. È come essere in una piccola navicella con intorno il vuoto siderale. Arriviamo in albergo e la moglie del capo dice tranquillamente in italiano all’autista brasiliano: “Roberto, visto il traffico di questa città, penso che sia meglio se domani ci vediamo un po’ prima. Diciamo alle 8 meno dieci”. Roberto le conferma con un ricco giro di parole che probabilmente è una buona idea, naturalmente in brasiliano. Entriamo nel grande albergo, ci salutiamo e prendiamo i diversi ascensori che ci competono per arrivare ai nostri piani. L’atmosfera è un po’ dimessa, buia, ma in fondo siamo alle 3 di notte.


Blackout in Brasile

Il giorno dopo, molto presto al mattino, mi telefona mio padre: “Allora com’è andato questo enorme blackout che ha lasciato al buio per ore il Paese? Effetti evidenti? Pare che ci sia stato un picco di azioni criminali”. Rispondo tranquilla: “Veramente non me ne sono quasi accorta”. Il dubbio di essere stata nel centro del caos e dell’attivismo criminale senza nemmeno rendermene conto mi resta in testa come un tarlo e così, mentre vado all’aeroporto, chiedo all’uomo che guida il taxi la sua opinione su che cosa sia successo durante il black out (http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200911articoli/49297girata.asp). La risposta è lunga e colorita, ma mi dà l’idea che sia un po’ troppo strutturata. Insomma, sono certa che l’autista dormisse nel cuore della notte. Credo che però si sentisse in dovere di raccontarmi tutto quello che la sua fervida immaginazione riuscisse a mettere insieme per non deludere l’osservatrice forestiera.

Nomignoli di famiglia

Ricevo da mio padre:
‘Cara, l'uso invalso di chiamare i nostri bambini con dei diminutivi - Costi per Costanza, Jak per Jacopo, Tom per Tommaso, Ame per Amerigo - mi ha fatto ritornare alla mente che in famiglia Ferraro era diffuso l'uso di nomignoli. Qualcuno me lo ricordo ancora, naturalmente per tradizione orale. Cominciamo da mio padre Guido: poiché da ragazzo era molto facile all'innamoramento, fratelli e cugini usavano chiamarlo Co', da Cotto, per le cotte che continuamente si prendeva. Però, poiché alla delusione amorosa seguiva in genere una crisi mistica, e diceva di voler farsi prete, in tale fase lo chiamavano Pre'. Le sue sorelle Maria e Immacolata erano Mimià e Tracola, quest'ultima poi divenuta Babà per la sua dolcezza.

Nella generazione precedente c'erano state Ziarà (da: "Zi', 'o tarallo!", invocazione dei nipoti), Zizià (che regalò a mio padre la da lui amatissima barca che si chiamò, appunto, "Zizià") e Zia Tonì (Cleonice, madre di Augusto, Decio; Sara ecc.). Ma forse il più celebre soprannome fu quello imposto a mio zio Mario. Questi era il più piccolo di tutt'i fratelli e cugini, per cui nelle battaglie gli toccava sempre la parte dell'Abissino (si era in piene guerre coloniali), e di costoro il più celebre era Ras Mangascià; da cui: Scianiello. Questo soprannome lo seguì per tutta la sua lunga carriera militare, che si concluse con il grado di generale di divisione. La riprova ne è data da uno specifico episodio. Una volta Zia Sara, che a aveva avuto vari fratelli ufficiali di carriera (dei quali tre caduti nella prima guerra mondiale), ed era rimasta fino alla fine un'inguaribile monarchica, si recò in pio pellegrinaggio a Cascais, a rendere omaggio a Umberto II di Savoia, colà in esilio. Nel salutarlo ebbe a dirgli: "Sono la sorella dei colonnelli Renato e Decio Ferraro del Regio Esercito, che Vostra Maestà ha forse conosciuti". "No, signora, ma ho conosciuto e frequentato il generale Mario Ferraro, detto Scianiello, già mio collega in Accademia". Insomma, un titolo confermato con rescritto reale.
Ciao – papà’

Impossibile per me restare indifferente a tutto questo. Ho provveduto quindi a scrivergli: “Splendido, davvero splendido papà”. Laconica la sua risposta: “Vabbuò, nun esaggeramme! Papà”.