domenica 22 marzo 2009

Portiamo Carla in ospedale. Al centro della notte.

“Secondo te sta morendo?” Sono seduta vicino a Carla e guardo il vecchio disteso sulla barella. “Mi pare ‘mbriaco – mi dice Mario – russa che è una meraviglia”. Il vecchio si gira, cambia tonalità e russa un po’ più forte. Siamo qui, in questo ospedale romano nel centro della notte, Carla, Mario, Adriano ed io. Lei si è sentita male al temine di una serata-evento. Stavo andando via e l’ho trovata accasciata su una poltrona con qualcuno che le teneva la mano. Un dolore le stringeva il lato sinistro del torace e scendeva inesorabile lungo il braccio. Ok, Carla è una donna e almeno fino ad ora siamo state un po’ più protette. Ma la preoccupazione corre sul filo della stanchezza. Insomma, quando Mario l’ha convinta ad andare in ospedale ho deciso di accompagnarla anche io. Poi ci ha raggiunto Adriano.

Sono seduta vicino a lei, che soffre in scarpe coi tacchi e abito elegante. Se sopravvivi a un’emergenza notturna in un ospedale romano sei davvero sano. Dopo un’ora Carla mi dice: ”Forse me ne vado a casa”. La guardo e mi vengono solo battute: “Sì è vero, è più comodo e piacevole morire tranquillamente a casa propria”. Anche Mario è sulla stessa tonalità dissacrante: “Mi dicono che il tizio sulla barella dorme spesso qui, forse potrei farmi dare una barella per un sonnellino anche io”. “Smettetela – guaisce Carla – se mi fate ridere mi fa ancora più male”. Adriano si aggira cercando falle nel sistema impenetrabile di accettazione. Non si riesce ad avere un’informazione, ne’ a capire per fatti concludenti se ti chiameranno e quando. Se pensi di esserti fatto un quadro arriva un’altra emergenza e devi ricominciare a definire a che punto sei. Adriano appura che forse Carla ha il cartellino giallo, ma arriva una ragazza sul cui piede una macchina è passata un paio di volte e certamente ha un cartellino rosso.

Due suorine parlano sottovoce in un angolo. Come i carabinieri si muovono in coppia. Parcheggiata su di una sedia a rotelle c’è la suora per cui sono qui. È tranquilla in un angolo, con aghi che le escono dalle mani e l’aria assente. Le due suorine parlano tra loro e non sembra si occupino troppo di lei. L’ubriaco sulla barella si gira e cambia ancora la tonalità del sottofondo musicale. Portano la ragazza con il piede maciullato dalla macchina. Sono con lei il probabile fidanzato americano, che ogni tre parole dice “fuck”, due ragazzi e una ragazza. Una signora con una borghesissima aria radical aspetta di capire cosa è successo al marito infartuato.

Esce un infermiere e siamo tutti intorno a lui. L’unica certezza è che non si può fare alcuna previsione. Mi chiama Gianfranco. Ha tentato di buttare giù dal letto un medico suo amico che lavora in questo ospedale. Il fortunato non rispose. Quando capisco che se resto è probabile mi debbano ricoverare dico a Carla che vado. Il giorno dopo trovo un sms delle 3.15: “Ho finito. Pare non ci sia niente di grave”. Poi la mattina incontro Mario: “Alle 3 ci hanno chiesto di aspettare. Alle 4 hanno fatto l’ultima prova e ci hanno mandato via. Ma certo che non ha nulla, è sopravvissuta a 6 ore in un ambulatorio d’emergenza?”

Pensavo in questi giorni ai libri di cui non avrei potuto fare a meno. Un posto speciale è per Àlvaro Mutis. “Ilona arriva con la pioggia”, “La Neve dell'Ammiraglio”, “Un bel morir”, “Amirbar”, “Abdul Bashur, sognatore di navi”. La forza di raccontare e rapirti. Ma questa ovviamente è tutta un’altra storia.

1 commento:

carla ha detto...

Da Carla la sopravvissuta. Mia cara, voglio colmare il vuoto lasciato da te con altri due episodi avvenuti durante la nottata. Quello dell'uomo arrivato in barella con infarto in corso, che ha pensato bene di "accelerare" il suo trasferimento (non c'era posto per ricoverarlo!) in modo più definitivo, iniziando a vomitare sangue, probabilmente per un'emoraggia interna. A far seguito, una donna di colore, probabilmente "una badante", in preda a quella che gli psichiatri definirebbero una "crisi di sovraeccitamento", del tipo "fuori come una terrazza, tento di eliminare il mio padrone". La signora in questione, vestita di tutto punto, ma scalza, insisteva che nessuno le chiamava un taxi per tornare a casa e tentava, invece, di inserirsi di soppiatto in quelli che arrivavano (compreso il mio!) per tentare di "scroccare" una passaggio. A parte le note di colore (rosso e nero!) volevo lasciarti con un altro pensiero. Quello, dominante, in quelle ore. Anche se ero abbastanza convinta di non avere niente di grave, ma non avendo comunque sottovalutato la possibilità che il mio "malanno" fosse un segnale di qualcosa di più serio, ho pensato ceh se fosse successo qualcosa di irreparabile, non erano presenti i miei, mio marito o mio figlio. C'eravate te e Mario, che conosco da vent'anni, con cui condivido una quotidianeità nel tempo, come nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia, come in un vincolo di quelli, almeno all'origine, indissolubili. Se mi fosse successo qualcosa, la vostra sarebbe stata l'ultima immagine. A voi, a te sarebbe toccato narrare. Con affetto.